Il 4 novembre 1966 l’Arno invase Firenze. Dopo 45 anni nulla è cambiato. Si resta sgomenti. L’Italia non regge più ore e giorni di pioggia. Muoiono persone, e anche una sarebbe troppo. Muoiono bambini. Non servono più allarmi se i sindaci non mettono in atto misure di prevenzione. Se il clima è cambiato, se a Genova in cinque minuti sono caduti 50 millimetri di acqua, dobbiamo cambiare anche noi. Altrimenti si continuerà a morire, nelle grandi città e nelle nostre case che crediamo sicure. A Genova il sindaco ha lasciato scuole e uffici aperti, e solo ieri sera ha proibito, per oggi il traffico di auto. Troppo tardi.
Oltre alla profonda tristezza, da lacrime agli occhi, si resta increduli nonostante lo si sia detto e sentito tante, troppe volte. Si denunciano lo scellerato consumo di suolo libero, la cementificazione selvaggia, l’incuria cui sono sottoposti i terreni demaniali in svendita, i fossi, i boschi, le coste, i prati e i suoli che un’agricoltura in crisi come non mai non riesce più a curare, tra abbandoni e vita grama. Lo Stato da anni taglia fondi e personale per la cura del territorio. Pensano alle grandi opere e non si preoccupano più delle piccole. Minime, ma che a volte salvano vite. Ci sono delle colpe. Gravi.
L’altro ieri lo stesso Ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, ammetteva – peggio di un incallito oppositore di questo Governo per cui non ci sono più parole – il fallimento dell’impegno principale che si era assunto sull’ambiente. Come ha dichiarato la Ministro in commissione al Senato, il miliardo di euro stanziato con la Finanziaria 2010 per la messa in sicurezza del territorio non è mai stato reso disponibile. Con la legge di stabilità è stato anche ufficialmente cancellato e sostituito con un impegno del tutto generico, e non vincolante. Queste sono colpe, per cui un normale cittadino verrebbe condannato. Non ci sono scuse, non c’è crisi che tenga di fronte alla cura del bene comune, il primo impegno che ogni Stato degno di questo nome dovrebbe avere.
Non c’è cura se non si cura la piccola agricoltura di qualità, che in molte zone ritenute “arretrate” ha salvato dal naufragio (umano nonché meteorologico) intere aree del nostro Paese. Non c’è cura se si preferisce l’agricoltura dei grandi numeri, quella industriale che dicono «competitiva», che alla fine desertifica come il cemento. Non c’è cura se c’è il cemento stesso: se le città, le zone residenziali, le aree industriali si espandono senza criterio e senza limite. Non c’è cura se il soldo arriva a prevalere sul minimo buon senso, quello che potrebbe salvare i nostri territori non soltanto dalla bruttezza, ma anche dall’insicurezza più letale.
Smettiamola di dire che le alluvioni sono eventi eccezionali. Perché le abbiamo rese normali. Di fronte a cittadini ormai disabituati alla cura, lo Stato e la politica su questo fronte hanno colpe immani. Sono anni che non si vede tra le priorità di un programma elettorale o di governo la difesa del territorio, nemmeno tra i riempitivi. Spero che mentre si contesta questo Governo, almeno visti i drammi recenti, i partiti inizino a pensarci seriamente, a programmare, a spendere parole e impegni forti, proprio a partire dalle adunate di piazza. Spero che ascoltino quella buona parte di società civile che lo chiede da tempo e già ci lavora con passione e sacrifici. O quegli agricoltori distrutti dai debiti che nonostante tutto lo fanno ogni giorno, nel proprio podere. Un poeta come Tonino Guerra un anno fa mi ha detto: «L’Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c’era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato (che oltretutto non ci sono più, nda), erano quelli che l’abitavano: i contadini. Dobbiamo riapprendere quella forza d’amore che avevano loro». Qui non è più sufficiente indignarsi, bisogna tornare ad amare per davvero la propria terra. Vilipesa non soltanto nei comportamenti inqualificabili di chi governa, ma nell’indifferenza di fronte a scempi che non sono più tollerabili. Anche se non lo erano già ben prima di arrendersi allo sgomento di questi tristi giorni della nostra storia.
Di Carlo Petrini
Tratto da La Repubblica 5/11/11