“Dopo aver attraversato tante vite (…), ed essere stato spiato dagli abitanti di tante stanze, le ragioni dell’architetto si erano andate affievolendo per poi sparire del tutto. Se fosse davvero entrato nella fucina degli architetti avrebbe disegnato, progettato, pianificato, ma non avrebbe avuto a che fare con questa realtà, bensì con qualcosa di lontano, astratto e contrario alla dimensione quotidiana dell’abitare.” (Franco La Cecla, Contro l’architettura, 2008, Bollati Boringhieri. )
Un articolo di Roberto Ugo Nucci (Rinascita), sulla banalizzazione dell’architettura e sul suo progressivo distacco dall’identità dei luoghi dove essa preme.
Nel Rinascimento la formazione degli architetti avveniva con un attento studio critico dei capolavori del passato e nel diciottesimo secolo l’Accademia di Francia dettava le regole del buon costruire con una formale investitura culturale. Oggi lo studio dell’ “antichità”, come usava chiamarla Norman Shaw, è del tutto superficiale e inconcludente, un semplice richiamo al passato senza alcuna mediazione storica e culturale che avvalori una presenza di continuità con la tradizione.
Come afferma Reginald Blomfield, docente e storico dell’architettura degli anni ’30, “sembra che la grande architettura non fosse mai esistita prima del ‘900, il modello di un municipio ora è un edificio lungo, basso, con una torre alta e magra ad una estremità e quello di una casa una scatola con dei buchi”. Una prefigurazione di quanto poi accadrà sistematicamente in uno scenario urbano monotono e deprimente, senza un’identità formale, anzi immiserito in una geometria elementare e ripetitiva.
La mancanza di una visione culturale attinta dalla storia, come diceva Blomfield, ha lasciato campo libero ad una architettura funzionale e utilitaristica, che ignora il significato del simbolo e che si inaridisce in edifici di culto con spazi privi di senso del sacro e di valore comunitario.
L’architettura post illuminista si è piegata al dominio della tecnica e si è ridotta ad un’architettura banalizzata dalla tecnologia, mutando i fondamenti e i contorni del sapere in meri supporti di inconsistente e arida ricerca formale.
Nietzsche in una sua conferenza sull’avvenire delle nostre scuole stigmatizzava lo stato di disagio culturale chiedendosi: “Chi vi condurrà alla patria della cultura, se le vostre guide sono cieche e si spacciano per gente che vede? Chi di voi perverrà al vero sentimento della sacra gravità dell’arte, se venite viziati sistematicamente a balbettare soli laddove vi si dovrebbe guidare, a meditare e a filosofare soli sull’opera d’arte, laddove vi si dovrebbe costringere ad ascoltare grandi pensatori e tutto ciò con il risultato che rimarrete eternamente lontani dall’opera d’arte? Così resterete servitori dell’oggi”.
Il modernismo, come rarefatta ideologia del progresso, affonda le sue radici nell’intellettualismo frutto di un culto esclusivo della ragione: De Chirico ammoniva “che alcuni vogliono sembrare intelligenti senza alcuna predisposizione a capire, ma semplicemente desiderosi di seguire ogni tendenza “
L’intellettualismo ha travolto il significato delle parole, ha creato un linguaggio di maniera, ha introdotto nuovi modi di rapportarsi con la realtà del commercio e del prevalente interesse economico, ha prodotto mestieranti della cultura affettati e sine nobilitate. I critici d’arte, moderne figure di operatori economici, hanno inventato un linguaggio confuso ed ermetico hanno “visto” in certe opere quello che non vi era da vedere, esaltando cose straordinarie laddove non esisteva che il nulla. Il critico, come il mercante d’arte, si sono resi complici di operazioni di mercato abilmente orchestrate a danno di un pubblico ora incolto e impreparato, quindi facilmente suggestionabile. Una volta l’arte era per veri conoscitori e materia di riflessione di poeti e scrittori come Sainte-Beuve, Baudelaire e Apollinaire, che in alcuni loro scritti parlavano d’arte con lo spirito e la sensibilità della loro cultura.
Nella pittura come nell’architettura modernismo e intellettualismo hanno percorso strade parallele. In Cezanne, che per un certo periodo della sua vita fu un mediocre pittore ottocentesco, la svolta interpretativa si determinò con la cubificazione delle forme in un modo spoglio, sfaccettato e geometrico.
C’è chi aveva capito che la novità e la vera bruttezza avrebbero potuto sostituire con buon successo la falsa bellezza di quei tempi e l’intellettuale così avrebbe avuto buon gioco a manifestare il suo intellettualismo con rinnovata abilità incantatrice. Non diversamente, appunto, si impose il modernismo nell’architettura del secolo XX con opere di ispirazione ingegneresca che la storiografia ufficiale celebrò come l’avvento di una nuova era. Si celebrano i nuovi materiali e le nuove tecnologie come espressione di nuove conquiste formali sino a riconoscere nella Tour Eiffel il simbolo-monumento della nuova epoca.
Come afferma Blomfield il predominio del modernismo nell’architettura, “è una questione più seria delle sue incursioni nella pittura, scultura, musica e letteratura; essa presenta il suo fronte sfacciato nelle nostre strade e nella nostra campagna ed è troppo grande e troppo costosa perché la si possa distruggere completamente”.
Con l’imporsi dell’internazionalismo in architettura, contro ogni forma di autonoma ricerca progettuale legata al contesto del luogo, si afferma il concetto di standardizzazione, parallela al processo di industrializzazione dei materiali, con effetti invasivi nel territorio di anonimi contenitori più simili a scatole d’imballaggio che a opere degne di una minima qualità formale. Come contrappunto al grigiore ed alla melanconica monotonia di anonimi parallelepipedi residenziali si realizzano strutture di insolente e volgare fattura in omaggio al potere consumistico e commerciale.
Le nuove “cattedrali” del consumo si contendono dimensioni sempre più grandi, da super a ipermercati sino a cittadelle del divertimento e dello svago, diventandolo il polo di attrazione di masse di individui destinate al più delirante spreco del tempo della storia.
Il modernismo come una piovra assale il territorio e lo stravolge, mentre i centri storici restano nel museo della storia, consegnati al turismo cosiddetto culturale come simulacri di un passato inerte e impossibilitato a dialogare con il mondo contemporaneo.
Il fondamentalismo ideologico della nuova architettura impone le sue regole, mutuate dalla diffusa globalizzazione dei mercati e dal prevalere di un urbanistica dettata da lobbies di potere sempre più aggressive.
A questo proposito significativo è l’amaro commento di Giorgio Locchi sui turisti in visita alla Tour Eiffel. Diceva Locchi che il loro esclusivo interesse era quello di sapere “quanto fosse alta e quanto pesasse”. Se questa è cultura democratica, non possiamo che rassegnarci.
Alcuni articoli sul non-ruolo delle archistar:
Italo Insolera: “Edilizia e archistar governano l´italia”
Insolera, urbanista tra le archistar
Archistar? No grazie!
Doppio brodo Archistar?
Musei. Archistar addio: l’ «effetto Bilbao» è più mediatico che economico
L’autoreferenzialità delle/gli archistar si rispecchia in quella dei committenti – sindaci, assessori, politici con poteri decisionali e finanziari – a cui interessa “lasciare il segno” del proprio passaggio sul territorio amministrato piuttosto che migliorarne aspetto e funzioni. Vanità, ignoranza e speculazione in senso lato si intrecciano sempre in queste operazioni “di facciata” a cui si prestano, duole dirlo, molti architetti di fama. Il risultato è la perdita di identità e specificità di regioni, paesi, continenti in cui natura e cultura dei luoghi non si incontrano più. L’edificio senza radicamento culturale è come un’astronave, stupefacente ma aliena, che atterra in una qualsiasi radura di un qualsiasi lembo di terra. Finiti i tempi in cui si insegnava agli allievi architetti l’arte della integrazione dell’architettura con la natura del luogo.
Una architettura che ignora contesto, storia e popolo è destinata alla rovina. Nessuno la rciconoscerà e la curerà. Condivido il giudizio di Stefano Ceccaroli, finora Messner era riuscito a produrre opere eccellenti. Peccato
1) Il paesaggio come lo conosciamo è il risultato della lotta tra l’uomo e la natura: piegarne il selvaggio territorio al bisogno di cibo e di bellezza.
2) Il bisogno di bellezza è il più difficile da gestire: gli architetti vengono inventati dal potere per farsi costruire città che ne materializzino la forza.
3) Ma se la forza viene dal popolo, bisogna concedere anche ad esso il piacere di vivere e di abitare.
4) L’architetto moderno, dopo il Bauhaus (tradotto: ascolta), dovrebbe essere una figura della democrazia della delega: capire, sintetizzare, costruire, o ancor meglio, utilizzare.
5) I villaggi erano costruiti dal disegno collettivo del popolo che abitava quel territorio: ogni pietra, ogni casa, ogni pollaio venivano posti in una logica di relazione col resto del paesaggio: ecco l’errore: togliere le persone, e la la vita, dal paesaggio.
L’ architettura degli architetti stellari(non della Terra)non esiste perché non è Architettura. E’ un prodotto di techno-design ridotto al ruolo di pezzo unico, senza valore pedagogico, che nulla comunica con l’ Umanità, se non stesso, e quindi con la città e con “l’ultimo paesaggio vero”. Ma occorre inoltre ripensare ai progetti di architettura diffusa, da tempo scaduta nelle ragioni della speculazione e spesso anche affrancata dalla quota del valore posizionale. E’ lì che risiede il male. Lì, dove chi decide non è l’ architetto e il committente-in un quadro di condivisione pubblica, discreta e strutturata-ma un mercato, malato di insufficienza culturale.
..conseguenza naturale della idolatria tecnologica che in essa confida e consegna le sorti del presente e del futuro che si consuma nell’attimo della osservazione come di fronte ad una nuova auto luccicante che si esprime attraverso e con i suoi cavalli ed il suo prezzo.Architetti per il mondo con la carriole piena di fumo, non anticipano il futuro ma lo condannano anche se dicono che i tetti richiamano le dolomiti o i volumi quelli di un liuto; tanti vetri con i loro codici a barre per sapere in ogni istante dove sono. Miserie dell’umanità.
Il movimento moderno rifiuta il decorativismo storicizzato perché ormai aveva perso ogni significato. Nel neoclassico e neogotico sono già presenti i germogli del pensiero che darà poi sfogo all’art nouveau e poi all’architettura moderna. Ma i concetti di bello e funzione di Le Corbusier non sono certo la deformazione speculativa che invece la società dei consumi ha cavalcato nel dopoguerra portando a noi e a queste architetture ispirate a elementi e forme primarie della natura e pertanto collocabili dovunque. Il punto è che ci stiamo finalmente accorgendo che queste mega strutture, sicuramente di impatto, in realtà sono di difficile gestione e manutenzione e non riescono a sopperire allo spettacolo della natura…. Sicuramente riscoprire il pensiero dell’architettura organica anche in scala urbanistica in direzione di città sostenibile è il futuro. Ma questo sta già accadendo infatti alcuni progetti presenti già alla biennale dell’architettura a Venezia nel 2010 presentavano soluzioni di questo tipo…. Il problema è che l’architetto non esiste senza committenza e fino a che la committenza non capirà anch’essa di cambiare rotta sarà difficile vedere una effettiva inversione di tendenza.
a proposito di archistar, nella loro rete ci è caduto anche l’alpinista Messner. Sul sito http://www.mixdesign.it è stato reso noto il progetto dell’archistar Zaha Hadid per il Messner Mountain Museum da realizzarsi in cima a Plan de Corones. A mio parere una vera e propria oscenità paesaggistica.
Vorrei aggiungere che, a riprova della mancanza di governo del territorio, supermercati e ipermercati realizzano le loro strutture tutte uguali in ogni luogo, senza che nessuno si ponga il problema della contestualizzazione e del rispetto del sito. In questo modo si sono creati poli e assi commerciali che costituiscono una prevalenza commerciale nel territorio, a dispetto di ogni equilibrata e corretta valutazione urbanistica. Così la città e il suo intorno hanno assunto una esclusiva connotazione commerciale che ha stravolto la situazione preesistente, piegandola a interessi economici dominanti.