Chi ancora non conoscesse Francesco Vallerani ha ora una ghiotta occasione leggendosi il suo ultimo libro “Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento” (Unicopli 2013, Collana “Lo scudo d’ Achille, Scienze per l’uomo a dimensione storica”, 182 pagine, 16 euro).
Vallerani insegna Geografia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e da sempre affianca la sua ricerca sulla geografia storica – con particolare riguardo alle secolari relazioni tra morfologie idrauliche e trasformazione dei paesaggi, anche attraverso la rete di ricerca “European Historical Waterways” – ad attività di divulgazione a sostegno delle tesi di Movimenti ed associazioni ambientaliste.
E’ stato tra i primi sostenitori, sin dalla nascita, del Movimento nazionale Stop al Consumo di Territorio e attualmente dedica particolari energie nell’analisi dell’evoluzione recente dei quadri ambientali della diffusione urbana. E’ dunque un’analista professionale di paesaggi: da quelli storici (eredità toccataci senza alcun merito) a quelli derivati dalle più recenti e tumultuose evoluzioni che tanto hanno trasformato ciò che nei primi anni del Novecento si definiva “il volto amato della Patria”.
Nel suo ultimo lavoro editoriale, ci offre un’analisi molto accurata dello “sviluppo” urbanistico del nostro Paese intero, usando la lente d’ingrandimento di quanto accaduto nel suo Veneto dal dopoguerra ad oggi: è il concetto di bellezza l’oggettivo sguardo che permea tutto il suo ragionamento e contrasta in modo stridente con l’abitudine, la banalità dell’utile, l’autentico fallimento di un modello di cui Vallerani nota l’emergenza dei problemi ambientali e la crescente diffusione dei suoi caratteri: il disagio e l’angoscia tra chi vive in territori perennemente sottoposti a devastanti trasformazioni.
Quello di Vallerani è un saggio a tinte forti, che si sviluppa in una prima parte di dolenti annotazioni critiche che tratteggiano il quadro fosco e pessimista di un Paese in bilico su un baratro e solo nel finale apre spiragli alla ri-conquista (culturale).
“Oggi siamo in presenza di privatopie diffuse, di territorialità cellulari, di microcosmi architettonici e lacerti di bellezza slegati dal contesto, la cui conservazione e cosciente difesa è poco presente tra le percezioni della collettività“, afferma Vallerani.
“Agli amministratori interessa solo a parole (e che belle parole !) di attutire il senso di ansia e allarme che affligge i gruppi di popolazione più sensibile nei confronti della perdita di qualità del bene comune, prestando ascolto con superficialità agli espliciti appelli di un paesaggio in fuga, a rischio costante di estinzione”.
E’ una constatazione dura che porta l’Autore ad una confessione, quella di “essere stato a un passo dalla fine delle illusioni, dalla rinuncia al senso civico, dall’esaurimento delle energie per proseguire nel necessario dovere dell’indignazione. … Nel Paese del cemento è normale che il senso di comunità prevalente si riveli poco attento alle sorti della territorialità collettiva“.
Ma cos’è il paesaggio? Per Vallerani è “l’insieme dei luoghi senza i quali non si può vivere, composto di risorse materiali e legami sentimentali; è habitat, rifugio, protezione dai pericoli, supporto alla soddisfazione esistenziale“. Oggi possiamo parlare di paesaggi feriti e di depressione, di sofferenza e di angoscia, di malinconia e lacerazione del senso dei luoghi, di traumi geografici, di profanazione del sacro. In un concetto: paesaggi della paura e del dolore.
Nel Paese del cemento, del qui ed ora, il futuro viaggia secondo i canoni della velocità, dell’utilitarismo avido che fa prediligere i progetti per l’immediato rispetto alla pianificazione a lungo termine.
Il “Bel Paese” è rimasto a lungo bello finchè è rimasto povero, poi l’emergenza abitativa ha spazzato via ogni riserva e cautela e dato la stura all’imperativo del “fare” (una “calamità” nella definizione di Vallerani): un “fare” acritico, ubiquitario, retorico, dissipatore di qualità, imposto dall’alto, indiscutibile, spesso militarizzato, che impoverisce gli scenari, arricchisce pochi, addolora molti e scatena appetiti in corrotti e corruttori.
Pare di trovarsi in un eterno dopoguerra, in cui “il ricorso al cemento è la soluzione più facile e accessibile per fronteggiare i periodi di crisi” e si manifesta con le leggi obiettivo, i piani casa, le perenni priorità delle innovazioni infrastrutturali.
E’ l’Italia del cemento che procede inesorabile nonostante le voci critiche, i lamenti, gli ammonimenti di molti uomini di cultura: Piovene e Comisso, Calvino e Mastronardi, Pasolini e Bassani, Cederna e Mazzotti, Borgese e Iannello, Zunica e Turri, fino a Zanzotto, Salzano, De Lucia, Settis, Bonora.
Nel libro, Vallerani ripercorre le loro narrazioni e mette assieme punti di vista e preveggenze che paiono costituire una sorta di specifico genere letterario cucito attorno ai paesaggi feriti e al consumo di suolo: un’Accademia dei Disagiati.
La storia dell’Italia del dopoguerra è la storia del Paese del cemento: nell’entroterra di Venezia sboccia l’era del capannone, nei luoghi palladiani l’Arcadia urbanizzata, l’84 % dei Comuni dell”intero Veneto vengono dichiarati economicamente depressi e lo sviluppo esplode nella sua più piena crudezza che trasforma la campagna in neo-città, in cantieri perenni, in filiere assolute (cementifici e cave). Dietro l’angolo resta solo il benavere di pochi anzichè il benessere di molti, l’edificato si interseca con l’agricoltura relitta, la città diviene policentrica e si “struttura in linea retta, fra un paese e l’altro, con le villette e gli stabilimenti che sorgono lungo una strada di grande traffico, soffocante e malsana, dove caricano e scaricano merci centinaia di camion ogni giorno e dove, come molti prevedevano, a un certo punto si sarebbe verificato il collasso“.
Sembra quasi che “alla cementificazione dei suoli faccia seguito una progressiva asfaltatura delle menti, una impermeabilizzazione delle coscienze che conduce alla definitiva assuefazione al brutto, al deturpato, all’inquinato e ciò lo si nota soprattutto tra i più giovani, specie se nati nella nebulosa insediativa tra Adige e Tagliamento“.
Alziamo lo sguardo, saliamo su ogni dolce collina del Bel Paese “dai poggi di Fiesole alle sinuose alture di Assisi e Foligno, dai belvedere del Monferrato alle pendici tormentate del Vesuvio, alle propaggini che delimitano le coste della Calabria. Ovunque si volga lo sguardo dal rilievo alle valli e pianure appare sempre la stessa inquietante marea montante di cemento, un blob grigio che avvolge e ammutolisce“.
Alziamolo questo sguardo. E non diciamo, mai più “non mi riguarda” …
(Recensione di Alessandro Mortarino)
Continuiamo a prendercela con la “classe politica”, chi l’ha votata invece è buono, ingenuo, e si oppone al cemento? Ma dove mai! Gli italiani hanno voluto, se non espressamente di certo hanno condiviso questo modello di sviluppo. Questa continua litania dei politici cattivi e corrotti che tradiscono i cittadini ingenui sta diventando insopportabile. Smettiamola con le ripetitive lagnanze e diamoci da fare sul territorio e non solo col voto. Siamo una minoranza, la maggoranza VUOLE questa economia, per questo dobbiamo lavorare e darci tanto, tanto da fare.
E no Paolo, una classe politica seria, a costo di rendersi impopolare, avrebbe fatto scelte diverse, anche se gli Italiani pensano ad uno sviluppo sbagliato, istruendoli in ciò che è di positivo. Il bene del Paese viene prima di ogni cosa.Rifletti!
Certo la saggistica è fondamentale, ma bisogna forse far cadere i volumi in testa agli amministratori futuri perché sortiscano un qualche positivo effetto. Bisogna cambiare strategia, più ironia e più cattiveria, le belle poesie van più che bene ma riserviamole a chi vuole approfondire nella tranquillità del proprio studio. E incoraggiamo chi ha idee sulla comunicazione (l’ironia è spesso più virale della denuncia) e chi sa come mettere veramente in difficoltà le lobby.
Che tristezza! Per colpa di una classe politica di mascalzoni e beceri individui dal dopoguerra ad oggi si deve lottare ogni giorno per difendere il Paese. Che schifo!