“In un luogo brutto, non possono che accadere cose brutte”: questa la verità, lapidaria ma inconfutabile, che ha guidato gli autori di “Architetture resistenti”, una rivoluzionaria graphic novel di cui si è parlato al Festival Letteratura (che non a caso si tiene a Mantova, città di rara bellezza).
Nato da una sinergia del tutto inedita, quella di un team formato da due celebri architetti (Raul Pantaleo e Luca Molinari) e una brava illustratrice (Marta Gerardi), il libro persegue il nobile obiettivo di raccontare a fumetti la storia di alcune opere di architettura contemporanea, definite appunto resistenti: progetti illuminati che, invece di piegarsi alla perversa logica dell’orribile cementificazione palazzinara che devasta l’Italia, abbelliscono il paesaggio e, a volte, addirittura lo difendono.
E’ il caso dell’imponente argine di terra che intorno agli anni ottanta, con sapiente e perentoria eleganza, l’architetto Pietro Porcinai ha costruito allo scopo di proteggere il prezioso parco archeologico di Selinute (TP) dall’inferno dell’abuso edilizio. O dello stabilimento Olivetti di Pozzuoli, ancora oggi modello di luogo di lavoro “user friendly”: non sta scritto da nessuna parte, infatti, che le zone industriali e gli edifici che le compongono debbano essere luoghi ostili all’uomo. E che dire del cosiddetto Giardino degli incontri che il Michelucci ha disegnato all’interno del carcere di Firenze, per renderlo più vivibile?
“In realtà,” ricorda Pantaleo, ispirata firma degli ospedali di Emergency, “gli esempi di architetture resistenti sono molto più numerosi di quello che si pensa: il problema è che la gente non li conosce. Ecco perché abbiamo scelto la storia a fumetti: un modo piacevole per spiegare alla gente che non ogni espressione dell’architettura contemporanea è un insulto alla bellezza. Che non tutto, insomma, è da buttare.”
“Certo”, prosegue Luca Molinari, “il ventennio che va dal ’50 al ’70, etichettato come quello della ricostruzione e della ripresa (ma in realtà più deleterio del ventennio berlusconiano, ndr), ha spalancato le porte alla speculazione edilizia, decuplicando la superficie urbana. Ma poi qualcuno, tra gli addetti ai lavori, ha cominciato a capire che il prezzo pagato per la presunta crescita era troppo alto e bisognava invertire la rotta: creando bellezza, invece di distruggerla”.
Emerge quindi il ruolo sociale dell’architettura, che appare sempre più cruciale nella costruzione di città e paesaggi a misura d’uomo. Formare professionisti nuovi, tuttavia, trasformandoli in produttori di bellezza, sarebbe inutile se contemporaneamente non provvedessimo a formare anche cittadini nuovi: che conoscano il valore del bello e lo pretendano, come un diritto inviolabile. Obiettivo realizzabile soltanto riformando la didattica e rendendoci conto che, accanto alla storia dell’arte e della musica, nelle scuole occorre insegnare anche storia dell’architettura. Per diffondere quella che Pantaleo, con un neologismo, chiama la “bellitudine”: cioè l’abitudine al bello. Perché un luogo gradevole, oltre a rispettare il territorio, fa stare meglio chi ci abita.
Carlo Mantovani