Basta incentivi all’eolico selvaggio! Un appello dal mondo ambientalista italiano

eolico-energia

COMUNICATO STAMPA DI:
ITALIA NOSTRA, ALTURA, AMICI DELLA TERRA, ASSOCIAZIONE ITALIANA PER LA WILDERNESS, COMITATO NAZIONALE PER IL PAESAGGIO, COMITATO NAZIONALE PER LA BELLEZZA, COMITATO NAZIONALE CONTRO L’EOLICO E IL FOTOVOLTAICO IN AREE VERDI, LIPU, MOUNTAIN WILDERNESS, MOVIMENTO AZZURRO, RETE DELLA RESISTENZA SUI CRINALI, VERDI AMBIENTE E SOCIETA’ , TERRA CELESTE

Basta eolico!

No a nuovi incentivi prima ancora di dilazionare quelli già assegnati

25 ottobre 2013 – Una lettera con una precisa richiesta di moratoria per nuove centrali eoliche è stata inviata da tredici associazioni ambientaliste ai ministri Zanonato, Orlando e Bray. Le associazioni intervengono a proposito del provvedimento annunciato dal Ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato per dilazionare parzialmente gli oneri che gravano sulle bollette di famiglie e imprese italiane a causa degli incentivi alle rinnovabili elettriche che ammontano ormai a 11,2 miliardi annui e che presto sfonderanno, per pura inerzia, anche il tetto dei 12,5 miliardi di oneri (6,7 per il Fotovoltaico più 5,8 per le restanti tecnologie) come stabilito dalla riforma dello scorso anno.

Se il Governo intende intervenire per attenuare questo aggravio dei costi dell’elettricità che compromette ogni possibilità di ripresa economica, noi concordiamo con questa finalità, ma osserviamo che prima ancora di cambiare tempi e regole per il pagamento degli incentivi già assegnati occorre smettere di assegnarne di nuovi. Ci riferiamo all’organizzazione delle aste competitive del prossimo anno per l’assegnazione di ulteriori incentivi alle fonti di produzione diverse dal fotovoltaico. Per il solo eolico onshore (e per i soli impianti di potenza superiore ai 5 MW) s’intendono assegnare altri incentivi a un contingente di 500 MW di potenza!

Rimarchiamo che ogni nuovo impianto che fornisce energia intermittente (eolico e fotovoltaico in primis), oltre a nuovi oneri diretti di incentivazione, comporta ulteriori costi, in particolare per:
risolvere i problemi di dispacciamento,
costruire nuovi elettrodotti, generalmente in aree a scarsa magliatura elettrica, con ulteriori danni ambientali,
rispondere all’aspettativa di un “capacity payment” che mantenga remunerativi e in esercizio gli impianti a idrocarburi fossili che devono per forza fungere da riserva “calda” a impianti che, per loro natura, non sono programmabili: non autosufficienti e non “alternativi”, con conseguente duplicazione dei costi.

Facciamo inoltre notare che gli obblighi assunti in sede europea dal Governo italiano nel 2010 per il raggiungimento della quota del 26,39% della produzione elettrica da FER. sui consumi nazionali nel 2020, e per cui gli incentivi vennero a suo tempo stanziati, sono già stati raggiunti l’anno scorso e saranno largamente oltrepassati quest’anno.  Altri settori, più performanti nella lotta ai gas serra e più utili all’ambiente e all’economia del nostro Paese come le rinnovabili termiche e l’efficienza energetica, non hanno beneficiato di analoghe politiche.

Un provvedimento di moratoria a incentivi per nuovi impianti di rinnovabili elettriche intermittenti si rende indispensabile per non vanificare ogni possibile intervento di contenimento dei costi di incentivazione in bolletta e persino per evitare di dover taglia reretroattivamente incentivi già assegnati. E’ inutile tentare di svuotare la vasca con un secchiello se il rubinetto rimane aperto ed è paradossale che società spagnole stiano per piazzare ulteriori centrali eoliche in Italia, mentre in Spagna è applicata una tassa del 6% sui ricavi da generazione elettrica.

Da Associazioni ambientaliste sensibili alla tutela del territorio, ci siamo espressi fin dall’inizio contro gli incentivi che hanno favorito la speculazione a danno del paesaggio, della natura, dei territori collinari e montani, sui crinali appenninici e nel Mezzogiorno,senza portare riduzioni significative, a livello complessivo, dei gas climalteranti.  

Facciamo notare che, se le nostre osservazioni fossero state accolte, non ci troveremmo in questa grave situazione, al punto da richiedere l’assunzione di provvedimenti, almeno in parte, retroattivi e con un territorio sfigurato che rischia di ricevere il colpo di grazia.

Le Associazioni nazionali:
Italia Nostra, Presidente Marco Parini – Altura, Presidente Stefano Allavena – Amici della Terra, Presidente Rosa Filippini – Associazione Italiana per la Wilderness, SegretarioGenerale Franco Zuninoe Presidente Onorario Carlo Ripa Di Meana, Comitato nazionale contro fotovoltaico ed eolico inaree verdi, Presidente Nadia Bartoli – Comitato Nazionale per il Paesaggio, Segretario Oreste Rutigliano- Comitato per la Bellezza, Presidente Vittorio Emiliani– Lipu, Presidente Fulvio Mamone Capria- Mountain Wilderness, Presidente Carlo Alberto Pinelli- Movimento Azzurro, Vice Presidente Vicario DanteFasciolo – Verdi Ambiente e Società (VAS), Presidente Guido Pollice – Associazioni e coordinamenti di comitati territoriali Rete della Resistenza sui Crinali, Coordinatore Alberto Cuppini TERRA CELESTE Associazione culturale, Presidente Luisa Bonesio

12 commenti

  1. Le lotte in difesa della Terra nell’Esagono non sono di oggi e nemmeno di ieri…Sicuramente la ormai ventennale resistenza ai progetti di un nuovo aeroporto per la città di Nantes è stata un esempio per altre battaglie, compresa quella in cui è stato ucciso il compagno Remì. Una lotta paragonabile a quella della Val Susa contro il TAV o, per chi ha memoria, a quella dei baschi contro la centrale nucleare di Lemoiz…
    Questo articolo risale all’anno scorso, ma rende l’idea della portata di questa lotta a Notre Dame des Landes. Non è un caso che le manifestazioni di protesta per la morte di Remì siano state particolarmente dure a Nantes. E forse potrebbero fornire qualche indicazione a certi ambientalisti nostrani (“di plastica” per definizione, più o meno collusi con chi comanda) in merito a cosa significhi realmente difendere la Terrai.
    ciao, GS

    NOTRE DAME DES LANDES: UNA LARZAC BRETONE
    (Gianni Sartori – settembre 2013)
    A Notre-Dame-des-Landes- dopo una breve parentesi dialogante in coincidenza con le ultime presidenziali – il confronto tra lo Stato francese e i manifestanti contrari al nuovo aeroporto si è fatto molto duro: barricate, cariche della polizia, lacrimogeni, arresti, demolizione di accampamenti e fattorie occupate.
    Nantes, capitale storica della Bretagna, città dell’Editto sulla libertà di culto (1598) e di Jules Verne, va legittimamente orgogliosa della sua cattedrale, del Castello dei Duchi di Bretagna e della Maison Radieuse di Le Corbusier. In passato coinvolta nella tratta degli schiavi (e forse anche per questo sede attualmente di molteplici iniziative contro il razzismo e la discriminazione), ma anche città martire durante l’occupazione tedesca. Basti pensare ai numerosi resistenti torturati e fucilati dai nazisti. Cinquanta partigiani nantesi vennero fucilati il 22 ottobre del 1941 (rifiutando di essere bendati), alcuni al “champ de tir du Béle” di Nantes, altri nella cava della Sablière e al Mont-Valerian (Parigi), come rappresaglia per l’uccisione del Feldkommandant tedesco Karl Hotz. A perpetuare la memoria dei “50 Otages”, l’omonimo monumento sul fiume Erdre, affluente della Loire.
    Ed è qui che all’alba del 25 giugno 2006 avevo appuntamento (non casualmente, dato il valore simbolico del luogo, monumento ad ogni Resistenza passata, presente e futura contro ogni forma di oppressione) con alcuni benévoles (volontari) a cui toccava il compito di montare il palco e i gazebo per una grande manifestazione. Guy, Paul e Jèrome, militanti ambientalisti e pacifisti da vecchia data, almeno dagli anni settanta, hanno vissuto per molti anni a Larzac ed erano anche a Genova nel luglio 2001. Nonostante le delusioni accumulate negli anni non demordono, continuano a lottare e hanno partecipato a quasi tutte le mobilitazioni che si sono svolte nel nord-ovest della Francia contro il progetto di un nuovo aeroporto a Notre-Dame des-Landes, a circa 20 chilometri da Nantes. Quella del 25 giugno 2006 rimane ancora una data significativa nella storia del movimento contro il devastante progetto. Nonostante il tempo piovoso, diverse migliaia di persone, in gran parte famiglie, si erano riunite a Fosses-Noires tra praterie e bocage. Un ambiente ancora incontaminato, protetto da migliaia di querce secolari. Dopo un pic-nic collettivo, i manifestanti si erano riuniti per formare una grande “fresque humaine”: AEROPORT, NO!”, mentre al microfono proseguivano gli interventi. I “resistants” di Larzac avevano portato il loro incoraggiamento agli “amis bretons” e alla loro azione in difesa della Terra. Erano intervenuti gli antinucleari, varie associazioni protezioniste, Greenpeace, la Confédération Paysanne e gli indipendentisti bretoni di sinistra (Emgann). Dominique Voynet, esponente dei Verts, ci aveva spiegato che quando era al ministero dello Sviluppo del territorio e dell’Ambiente aveva potuto “esaminare il progetto di Notre-Dame-des-Landes. All’epoca si ragionava in termini di aeroporti internazionali piuttosto che di piccoli aeroporti distribuiti sul territorio come quelli di Angers, di Saint-Nazaire o di Rennes. Ma ora -aveva continuato Voynet- con il petrolio a 70 dollari (2006 nda) la situazione è completamente cambiata”. Sulla stessa linea si era espresso Yves Cochet, altro esponente del partito ecologista presente alla manifestazione: “Il rincaro del petrolio non va a favore del traffico aereo, soprattutto di quello delle compagnie a basso costo”. E aveva concluso sostenendo che “noi abbiamo la speranza di poter seppellire questo progetto”. Molto meno ottimisti si erano mostrati Guy, Paul e Jèrome, i tre militanti con cui ero arrivato a Fosses-Noires: “Chi ha i soldi e il potere vuole a tutti i costi costruire l’aeroporto e probabilmente ci riuscirà”. In ogni caso “faremo di tutto per impedirlo”. All’epoca i fautori del progetto (sbagliando clamorosamente) sostenevano che entro il 2010 l’aeroporto già esistente di Nantes-Atlantique sarebbe stato “saturo”. Di diverso parere un portavoce della Confèdèration Paysanne secondo cui queste previsioni erano “completamente infondate, così come lo erano quelle che nel 1970 prevedevano cinque milioni di passeggeri entro il 2000. Invece siamo ancora a due milioni”. E proseguiva: “Sono 35 anni che questo progetto è nato, ma al momento di realizzarlo è già troppo tardi. Il degrado ambientale, l’aumento della temperatura, la fine ormai annunciata del petrolio sono solo alcune delle ragioni per cui questa opera è inutile oltre che nefasta”. Da sottolineare come l’area individuata per l’aeroporto si trovi in una zona di bocage ancora ben conservata, un corridoio naturale tra la valle dell’Erdre, la Brière e l’estuario della Loire dove esiste una eccezionale varietà di flora e fauna, con specie altrove scomparse da tempo (alcune varietà di tritoni e altri anfibi, per esempio). La realizzazione dell’opera, mi spiegavano “porterebbe alla distruzione totale di queste ricchezze naturali”. Infatti un aeroporto concepito per 9-10 milioni di passeggeri comporterebbe “più di 130mila movimenti all’anno tra decolli e atterraggi; 350 aerei di media ogni 24 ore; un aereo ogni 2-3 minuti dalle 8.00 alle 19.00; 30 aerei all’ora nelle ore di punta”.
    Questa la situazione che incontrai nel 2006. Inevitabilmente mi ricordava eventi analoghi degli anni settanta quando vaste estensioni di terreni agricoli in Bretagna e Loira Atlantica vennero sottoposte all’opera di “modernizzazione e ricomposizione delle terre” per favorire l’agricoltura meccanizzata a scapito del paesaggio tradizionale. Tra gli effetti collaterali, grave erosione dei suoli sui pendii, siccità e inondazioni. A cominciare dal 1973 Morlaix, Quimper, Chateaulin e altre località bretoni vennero regolarmente invase dalle acque, una conseguenza della distruzione del reticolo di terrapieni coperti di vegetazione e fossati (il bocage) che trattenevano gran parte delle precipitazioni (del resto non è quanto sta avvenendo da qualche anno nelle provincie di Padova e Vicenza a seguito della sistematica cementificazione -coorti di capannoni, basi militari come Pluto e Dal Molin, nuove autostrade come la A31- delle campagne tra Brenta, Tesina e Bacchiglione?)
    Intervenendo alle “Giornate Rurali di Nantes” (15-16 novembre 1974) Per Rhun ricordava quanto suo padre aveva risposto, in bretone ovviamente, ad un arrogante funzionario dei lavori pubblici.
    “Ma karez vo freuzet ker, ma-mout ganti!” (Distruggi anche la fattoria se vuoi, già che ci sei!).
    Dopo aver spianato un terrapieno e abbattuto alcuni olmi e castagni secolari, i bulldozer si accingevano a proseguire l’opera di devastazione del bocage intorno alla piccola fattoria della famiglia Rhun, a Trémèoc (Finistère). Lo stesso Per Rhun (divenuto in seguito docente di Geografia dell’Università di Nantes) avendo protestato di fronte ai cumuli di ceppi sradicati, veniva invitato seccamente a “parlare francese” per aver usato una “parola contadina” (in bretone) dal funzionario “egli stesso figlio di un contadino della bassa Bretagna, ma passato dalla parte del potere”. Una testimonianza che potrebbe tranquillamente riferirsi ai nostri giorni.
    Nel 2012 avevo poi seguito a Nantes un’altra clamorosa iniziativa contro il devastante progetto AGO (Aéroport du Grand-Ouest, più conosciuto come aeroporto internazionale di Notre-Dames-des-Landes): un mese di sciopero della fame, tra aprile e maggio, di due contadini, Marcel Thébault e Michel Tarin. Contrari agli espropri delle aree agricole, si erano rifiutati di negoziare i previsti indennizzi con la multinazionale Vinci responsabile del progetto. All’epoca appariva evidente che se il ballottaggio per le ultime elezioni presidenziali avesse riguardato soltanto la regione Bretagne (4 dipartimenti: Finistére, Cotes-d’Armor, Morbihan, Ille-et-Vilaine) e il dipartimento di Pays de la Loire (il 44, dove sorge Nantes), Hollande avrebbe avuto non poche difficoltà nel recuperare i voti di Europe EEVV (i Verdi francesi), Front de Gauche e Modem (per non parlare del NPA, Nuovo Partito Anticapitalista), tutti contrari al progetto sostenuto sia dai socialisti locali (Ayrault in particolare) che dall’Ump di Sarkozy. E’ ormai da un paio di decenni che la popolazione si mobilita con manifestazioni, proteste e occupazioni (“tra elicotteri, cariche e lacrimogeni, contro il cemento e la rassegnazione” si legge in un volantino) per la salvaguardia di questo territorio. E, va detto, non appare per niente intenzionata a desistere.
    Il bocage a nord di Nantes si caratterizza per la presenza di centinaia di grandi alberi secolari; 1650 ettari di terre agricole che con la realizzazione della “grande opera” verrebbero completamente devastate.
    Dopo aver firmato con i responsabili del PS di Loire-Atlantique e l’inviato di Hollande l’accordo per una moratoria sulle espulsioni dei contadini, l’8 maggio 2012 Thébault e Tarin avevano sospeso la grève de la faim. Tre giorni prima, il 5 maggio 2012, avevano incontrato il consigliere comunale Gaelle Berthand, gli esponenti di Saint-Herblain à Gauche Toute e di Breizhistance (la formazione della sinistra indipendentista bretone derivata da Emgann) che avevano commemorato il 31° anniversario della morte di Bobby Sands. E’ perlomeno singolare che una ventina di anni fa un amministratore locale socialista avesse dedicato al prigioniero politico irlandese (morto il 5 maggio 1981 dopo 66 giorni di sciopero della fame nel carcere imperialista di Long Kesh) una via di Saint-Herblain, piccolo municipio del nord-est di Nantes agglomération. Nella stessa zona vi sono altre strade intitolate a Juan Grimau (giustiziato dal franchismo nel 1963), a Sacco e Vanzetti, ai coniugi Rosemberg (vittime del maccartismo), al martire praghese Jan Palach e a Soweto, la città simbolo della lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Alla cerimonia di commemorazione del 2012 avevano partecipato, oltre a Saint-Herblain à Gauche Toute e Breizhistance, alcuni esponenti dei Verts, militanti del NPA, degli Alternatifs e del Comitato di sostegno ai grévistes di Nantes. Tutte organizzazioni di sinistra come è giusto che sia nel rispetto dell’identità politica e culturale del militante irlandese “divenuto un simbolo per tutti i resistenti e prigionieri politici del mondo”.
    Da rue Bobby Sands il corteo si era diretto nella piazza di Nantes (non lontano dal castello dei Duchi di Bretagna) dove da circa un mese i due hunger-strikes (a cui si erano uniti altri contadini, un docente universitario di Nantes e alcuni consiglieri regionali) esprimevano la loro opposizione all’aeroporto. L’accordo provvisoriamente raggiunto non implicava il blocco definitivo dei lavori per l’AGO, ma soltanto la sospensione delle espulsioni in attesa di una risposta ai ricorsi depositati sia sui lavori affidati al gruppo Vinci che sulla “questione prioritaria di Costituzionalità” (QPC). Ancora il 30 aprile 2012, intervistato da Ouest-France, Hollande aveva dichiarato che “prima di iniziare i lavori bisognava attendere che la giustizia si fosse pronunciata”. Un altro ricorso era stato depositato davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Oltre ad una apparente “disponibilità al dialogo” di Hollande, dietro alle quinte si intravedeva l’operato di José Bové e dei fratelli Cohn-Bendit. I noti esponenti ecologisti avevano coinvolto anche Louis Peillon, uno dei maggiori esponenti della battaglia giuridica dei contadini di Larzac (dove si intendeva realizzare un immenso poligono di tiro militare) contro lo Stato francese negli anni settanta.
    Dal punto amministrativo il dipartimento 44 (Loire Atlantique) fa parte della regione Pays de la Loire (e non della Bretagne), ma Nantes rimane la capitale storica dei Bretoni. Come scrivevano quelli di Emgann (la formazione della sinistra indipendentista bretone che si ispirava ai baschi di Herri Batasuna e da cui deriva Breizhistance) “il nostro paese, la Bretagna, resta amputato di un quinto del suo territorio in virtù di un decreto firmato da Pétain (il maresciallo collaborazionista durante l’occupazione tedesca nda) nel 1942 e successivamente fatto proprio da gollisti e socialisti PS”. Normale vedere scritte come “BZH 44” (dove BZH sta per Breizh) o assistere a Nantes a manifestazioni per una “Bretagne à 5 dèpartements”. Nello stesso giorno della sospensione dello sciopero, l’8 maggio 2012, Breizhistance e Union Democratic Bretonne (UDB) avevano organizzato una “catena umana per la riunificazione” sul ponte St-Nicolas tra Redon e St-Nicolas de Redon, al “confine” tra Bretagne e Loire-Atlantique.
    Dimenticavo. Singolare coincidenza, quel giovane amministratore socialista che dedicò una via al martire irlandese, altri non era che Jean-Marc Ayrault, divenuto in seguito maire (sindaco) di Nantes, deputato di Loire-Atlantique e attuale primo ministro. La sua designazione alla prestigiosa carica era stata interpretata come una contropartita offerta da Hollande all’ambizioso Ayrault in cambio della rinuncia al progetto AGO.
    E invece, dopo un periodo di momentanea tregua, ben presto la situazione era tornata incandescente. La giornata del 7 novembre 2012 merita di essere ricordata come una vera battaglia campale. Almeno cinque ore sono occorse ai due squadroni di gendarmes mobiles affiancati dai CRS per demolire le sette barricate innalzate sulla strada dipartimentale 281 (tra Notre-Dame-des-Landes e La Paquelais) nella zona dove si vorrebbe costruire una pista del contestato Aéroport du Grand-Ouest.
    Contro i manifestanti -che avevano acceso dei fuochi per riscaldare l’ asfalto e facilitare lo scavo di buche a colpi di ascia- decine di cariche, lacrimogeni, pestaggi, arresti…
    Come sempre, tra gli oppositori di AGO sia contadini che semplici abitanti del luogo, non solo quelli colpiti dagli espropri. A loro si sono aggiunti gli occupanti di alcune fattorie abbandonate, esponenti di Europe Ecologie-Les Verts e della sinistra indipendentista bretone (Breizhistance, ex Emgann), militanti anarchici e autonomi.
    Le espulsioni erano iniziate il 15 ottobre 2012 con un’operazione denominata, in maniera alquanto rivelatrice, “César”. Un vero autogol mediatico, se pensiamo che l’irriducibile villaggio di Asterix (quasi “eroe nazionale” in quanto antagonista dell’invasore della Gallia Giulio Cesare) era stato immaginato da Goscinny e Uderzo proprio in Bretagna.
    Prontamente i manifestanti hanno lanciato lo slogan “Veni, vidi, Vinci” ironizzando sul nome dell’azienda costruttrice, Vinci Airports. Ripetutamente ascoltata anche la variante “Veni, vidi, reparti”.
    Grande delusione da parte degli ambientalisti per la mancanza di disponibilità mostrata dal nuovo primo ministro, l’ex sindaco di Nantes Ayrault. Quanto al presidente Hollande, era inevitabile fare un confronto con Francois Mitterand: nel 1981, appena eletto, aveva fatto sospendere l’ampliamento del poligono militare di Larzac. Considerazioni ambientaliste a parte, non si comprende quale sia l’utilità di AGO visto che intorno a Nantes sono già in funzione ben due aeroporti, Nantes-Atlantique (pochi chilometri a sud) e Saint-Nazaire-Montoir (a circa 40 chilometri). Obiettivo dichiarato dei prossimi appuntamenti del movimento, rioccupare i terreni e gli alberi da dove i manifestanti sono stati forzatamente evacuati.
    (Gianni Sartori – 2013)

  2. Ho ripescato questa intervista del 2007 che mi sembra pertinente, ciao
    GS
    Un incontro con FRANCESCO VALLERANI
    Gianni Sartori)
    Sabato 23 giugno 2007 Francesco Vallerani, docente di Geografia Umana di Ca’ Foscari, ha partecipato al dibattito “Territorio e Biopolitica” all’interno delle iniziative di Festambiente 2007, a Vicenza.
    D. Richiamandoci ad un libro da lei citato (“Collasso – Come le società scelgono di morire o vivere” di Jared Diamond), il Nord-est in che categoria si potrebbe collocare? Quali ritiene siano le principali emergenze di questo territorio?
    R. Nel Nord-est ci troviamo sicuramente di fronte ad un esempio di “egoismo razionale”, utilitaristico. Questo atteggiamento non è solo eticamente deprecabile, ma anche dannoso per le comunità, oltre che per l’ambiente.
    Direi che per i cittadini del Nord-est sta diventando centrale la questione idrica. E’ sempre più evidente che l’acqua non è inesauribile e i fiumi diventano indicatori fondamentali della qualità ambientale. Stanno emergendo dovunque i vari “conflitti d’uso” rispetto ai corsi d’acqua: irrigazione, ricettori per i reflui, fonte di energia idroelettrica (soprattutto per i bacini montani). Senza naturalmente dimenticare l’uso ricreativo, il valore estetico. Basterebbe osservare quante persone percorrono le piste ciclabili sugli argini.
    Difendere i corsi d’acqua è diventato determinante, quasi una via di salvezza per una società che ha quantomeno “esagerato”. Pensiamo solo alle innumerevoli varianti dei piani regolatori, alla proliferazione delle zone artigianali.
    .
    D. Oppure, qui nel vicentino, alla prevista A31…
    R. Per la nuova autostrada si dovrebbe almeno pensare a qualche ammortizzatore ambientale. Si potrebbe fare come in Germania, ossia riforestare una fascia di terreno per una decina di metri su entrambi i lati dell’autostrada. Tutti i grandi dibattiti generali (sul clima, l’inquinamento, la deforestazione…) richiedono anche una consapevolezza locale. Un discorso che si lega anche all’identità di cui il paesaggio tradizionale è una componente fondamentale.

    D. Anche il dibattito in merito alle cave sta tornando attuale…
    R. E’ ovvio che più si costruiscono aree artigianali, più c’è bisogno di cemento e quindi di cave, da Asiago alla Val d’Astico, a Carpanè…
    Le cave servono per costruire capannoni, ma compromettendo irreparabilmente la base ecologica (acqua e suolo), rischiando appunto il “collasso” di cui parla Diamond.

    D. Parlava anche di “amnesia del paesaggio”. Di cosa si tratta?
    R. Si parla di amnesia del paesaggio, sia storico che naturale, quando le modifiche sono graduali. Esemplare la lenta scomparsa dei ghiacciai alpini, meno percettibile per chi vive nelle vicinanze. Vale anche nel caso di disastri ambientali. La grave siccità del 2003 è stata ormai dimenticata.

    D. Volendo trovare qualche analogia con il Nord-est?
    R. Mi ricorda la situazione descritta da Davis in “Geografie della paura” quando parla di Los Angeles negli anni cinquanta.
    Anche se l’area considerata è tre volte maggiore ( ma gli abitanti sono circa dodici milioni) le dinamiche sono quasi le stesse. Qui dagli anni cinquanta in poi hanno dominato gli immobiliaristi. Si diffondeva il mito della “campagna” e tutti volevano il loro pezzetto di “verde”. Era il rigetto della metropoli con conseguente urbanizzazione della campagna. Anche nel Nord-est possiamo ormai parlare di “città diffusa” o anche di “villettopoli” come scriveva Eugenio Turri.

    D. Quando si parla di degrado ambientale, in genere, si pensa all’industria, sottovalutando il fatto che anche l’agricoltura provoca danni all’ecosistema, alla biodiversità…
    R. L’attuale agricoltura è molto idrovora; inoltre è fortemente sussidiata.
    Vanno assolutamente riviste le politiche agricole comunitarie. E’ assurdo, per esempio, che da noi si finanzi la coltivazione del mais nell’alta pianura, a monte delle risorgive. In queste aree si dovrebbe privilegiare un’agricoltura di nicchia e di qualità.
    Oppure lasciare i campi a riposo, a maggese… Naturalmente c’è il rischio che, non ricevendo più contributi per il mais, si pensi di rendere questi terreni edificabili. Su questo l’Europa dovrebbe essere ferrea.

    D. Ma quali potrebbero essere le alternative?
    R. Si potrebbe passare a colture per biomasse, sia per il carburante che per legname da riscaldamento. Oppure si potrebbero piantare alberi di noce, per l’industria del legno. O pioppeto, dove è possibile…In ogni caso la presenza di alberi, di siepi favorirebbe la biodiversità.
    D. Negli ultimi anni si parla spesso di desertificazione. E’ un problema che potrebbe interessare anche l’Europa?
    R. Bisogna distinguere tra desertizzazione, ossia l’avanzamento della sabbia e desertificazione.
    Il primo fenomeno si osserva soprattutto nell’Africa subsahariana e in alcune zone dell’Asia, come attorno al Lago d’Aral.
    Invece la desertificazione è sostanzialmente un grave deficit di acqua e si può osservare anche in Italia, per esempio nella bassa cremonese. Ci sono poi alcuni fiumi, come il Lambro e il Seveso, ormai inutilizzabili a causa dell’inquinamento. Nella zona del Po invece abbiamo la rimonta del cuneo salino. L’acqua della falda è fortemente contaminata dalla salinità che ormai arriva fino oltre Adria. Un altro grave problema per l’intera pianura padana è quello della qualità dell’aria, come conferma l’aumento delle allergie e della mortalità dovuta a malattie respiratorie.

    D. Alcuni movimenti ecologisti radicali hanno messo in discussione il cosiddetto antropocentrismo, identificato come la causa prima del nostro atteggiamento distruttivo nei confronti della natura, dell’ambiente, degli altri esseri viventi. Lei cosa ne pensa?
    R. Anche tra gli ambientalisti c’è una contrapposizione tra conservazionisti e preservazionisti. I primi vorrebbero proteggere l’ambiente per continuare ad usarlo, parlano di sostenibilità (un concetto talvolta discutibile). Invece per i preservazionisti non si dovrebbe modificare nulla. Forse si dovrebbe trovare un compromesso. Certo, alcune aree del mondo andrebbero completamente preservate per la loro biodiversità. Invece è proprio qui che le multinazionali del legname affittano vaste aree, tagliano gli alberi, se ne vanno e lasciano i costi alle popolazioni locali. E’ la “tragedia dei beni comuni”. In questo caso, secondo Diamond, la proprietà privata garantirebbe una tutela maggiore.
    Gianni Sartori

  3. Dagli Stati Uniti alla Francia: “urban sprawl” e “rurbains” divorano il territorio
    (Gianni Sartori)

    Con il termine urban sprawl si indica l’estendersi, il dilagare degli agglomerati urbani, in particolare lo “sviluppo a bassa densità, autodipendente, oltre il limite coperto da servizi e infrastrutture urbane”. Negli Usa sembra essere diventato un vero e proprio “pilastro dell’organizzazione sociale, elemento sostanziale e ineliminabile dell’american way of life”.
    Commentava impietosamente un ecologista:” Al di là di tutta la retorica che lo circonda, il “sogno americano” non consiste in nient’altro che in una villetta suburbana con una staccionata, due auto e una vacanza all’anno”. Una casa, un prato (diserbanti e tosaerba), talvolta un albero per “credere di vivere in campagna”. Un modello sempre più diffuso, anche nelle numerose “villettopoli” del nostro Nord-est.
    Situazione resa possibile soltanto dall’uso quotidiano dell’auto (spesso un ingombrante Suv), indispensabile per ogni spostamento, dato che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di pendolari che lavorano in città.
    Scontate le conseguenze: aumentano strade e autostrade, aumenta l’inquinamento.
    Secondo calcoli effettuati negli Stati Uniti la casa unifamiliare (la “villetta”) suburbana richiede in media che siano asfaltati almeno dieci metri di strada ogni due famiglie. Ovviamente si moltiplicano anche i chilometri di linee telefoniche, fognature, condotte idriche, a spese di boschi, foreste, terreni agricoli.
    Negli Usa le aree urbane delle metropoli aumentano ad un ritmo che è doppio rispetto all’aumento della popolazione e lo spraw fagocita ogni anno circa 4mila Kmq di terra destinandoli a scopo urbano (strade, case, parcheggi, centri commerciali…).
    Sul lungo periodo l’ambiguo “amore per la campagna e la natura” degli americani comporta effetti devastanti; distrugge la natura e allarga enormemente le aree urbanizzate. Per aver un’idea dell’urban sprawl basta vedere uno di quei film dove uomini e donne a fine lavoro sciamano lontano dai loro uffici di New York per rifugiarsi nel tranquillo New Jersey, in grandi case rassicuranti, “immerse nel verde”, con serramenti in legno bianco, parquet e giardino. Talvolta, mentre si allontanano in fretta dalla downtown, attraverso i finestrini si vedono scorrere immensi e degradati quartieri popolari, progettati da persone che non ci vivrebbero mai. Anche la vecchia Europa non scherza. Pensiamo a Londra con la sua serie infinita di case a due piani con vetrata frontale e giardinetto sul retro (nelle due versioni, per benestanti e popolare). Un pezzetto di erba privata garantito per buona parte dei nove milioni di abitanti, un paesaggio urbano sicuramente più suggestivo di quello offerto dai casermoni popolari, ma anche una città che si è estesa a macchia d’olio, inglobando paesi e territori che fino a non molto tempo fa costituivano la caratteristica e amata “campagna inglese”.
    Per quanto ci riguarda, già nel 1979, in “Semiologia del paesaggio italiano”, Eugenio Turri, di fronte alle profonde e rapide trasformazioni in atto nelle nostre campagne e colline (v. la Lessinia), si chiedeva se si trattasse di “trasformazione o distruzione?”.
    Confrontando la crescita demografica del nostro paese con l’espansione urbanistica si nota una certa sproporzione.
    Dal 1951 al 2006 la popolazione è cresciuta soltanto di circa undici milioni.
    Invece la cementificazione del territorio nel medesimo arco di tempo è aumentata a dismisura, sconvolgendo l’assetto agricolo e il paesaggio. Città cresciute in modo incontrollato (la “via Gluck”) e campagne urbanizzate, mentre prevaleva sempre di più l’idea di uno “spazio privato” e provvisto di cancelli per ingabbiare un misero brandello di verde.
    Lo ricordava anche l’urbanista Georg Josef Frisch: “In Italia, fino alla metà degli anni Settanta, la crescita delle città significava insieme crescita demografica e crescita fisica. Da allora l’andamento demografico ed economico è sostanzialmente fermo. Il consumo di suolo, invece, non conosce inversioni di tendenza”. La causa principale sarebbe “uno stile di vita sempre meno sostenibile” con il territorio concepito soltanto come “oggetto di consumo o mero supporto alle attività economiche”.
    Il giro di affari delle imprese edili e del settore immobiliare è cresciuto in proporzione, anche se migliaia di case restano invendute e altrettante rimangono sfitte. E poi ci sono le seconde e terze case al mare e ai monti.
    Talvolta questo processo di “occupazione” del territorio e dell’ambiente naturale, ha assunto i caratteri di una vera e propria colonizzazione, da manuale.
    Molte delle terre ancestrali degli indiani, ora segregati nelle riserve, sono state ricoperte dall’edificazione urbana. Sui territori palestinesi, gli israeliani hanno costruito un paese tecnologicamente moderno, con insediamenti costituiti da nuclei abitativi compatti, impenetrabili, quasi avamposti militari. Per realizzarli sono stati abbattuti migliaia di ulivi secolari e la maggior parte degli abitanti va tutti i giorni a lavorare in Israele percorrendo autostrade destinate esclusivamente ai coloni.
    Tempo fa, in un articolo pubblicato su “Le Monde diplomatique”, il geografo e orientalista Augustin Berque si era scagliato contro les rurbains, quei cittadini dei paesi ricchi che scelgono per la loro residenza un “habitat de type campagnard”.
    Una tendenza che, mentre si autorappresenta come desiderio di “vivere a contatto della natura”, si rivela un modello molto più vorace di risorse naturali rispetto a quello della ville compacte.
    Secondo Berque, l’urbanizzazione diffusa, aumentando la pressione umana sull’ambiente, sta diventando una delle maggiori cause di distruzione dell’ oggetto stesso di questo desiderio, la “natura”.
    Il geografo distingue quello che avviene in Europa, Stati Uniti o Giappone dal sempre maggior numero di megalopoli che si sviluppano nei paesi poveri, ricordando che comunque i rurbains rimangono sociologicamente dei cittadini “in fuga” dalle città. Invece nelle megalopoli del terzo mondo si rifugiano le popolazioni in fuga (non metaforica) dalle campagne e dalla miseria.
    Insieme all’automobile, l’abitazione individuale è diventata “il leitmotiv di un genere di vita la cui smisurata impronta ecologica implica un consumo eccessivo delle risorse naturali”, insostenibile sul lungo periodo. Si pensa con rimpianto ai progetti di Le Corbusier e alla sua maison radieuse.
    I termini della questione sono molto chiari: “L’impronta ecologica è sicuramente minore con abitazioni di genere collettivo e con trasporti pubblici. Al contrario l’urbanizzazione diffusa dilapida il capitale ecologico dell’umanità”.
    In sostanza un suicidio collettivo.

    QUESTA TERRA E’ ANCORA LA NOSTRA TERRA?
    QUANDO I PRIVILEGIATI SI IMPADRONISCONO ANCHE DELLA BELLEZZA DELLA NATURA

    In un suo articolo Barbara Ehrenreich (“Questa terra è di tutti”) aveva evidenziato un altro aspetto della distruzione ambientale, affermando che “i ricchi possono togliere ai poveri anche il diritto alla bellezza della natura”. Per la giornalista di “The Nation” (nota come autrice del libro “Una paga da fame: come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo”) dagli anni novanta in poi si sarebbe imposta una regola generale: “Se un posto è veramente splendido chiediti se te lo puoi permettere”. Con qualche rara eccezione “la maggior parte dei punti panoramici sta sparendo molto rapidamente inghiottiti dalle grandi proprietà”. Cita luoghi ben precisi (Driggs nell’Idaho, Key West in Florida…) da lei conosciuti prima che “arrivassero quelli con i soldi” e ormai trasformati in maniera irreversibile.
    Gli stessi che si arricchiscono “inquinando tutti i paesi dove non hanno le loro terze o quarte case” sono arrivati con i loro aerei privati, hanno fatto salire a 7 cifre i prezzi delle case e hanno costruito i loro residence. E mentre i poveri si disperdono in sovraffollate periferie urbane o si riducono a vivere in roulotte, gli allevamenti di cavalli dei miliardari si espandono.
    Edward O. Wilson parlava di “biofilia come di un innato bisogno umano di interagire con la natura”. Lasciare che i ricchi ” si impadroniscano di tutti i posti più belli della terra potrebbe avere serie conseguenze anche sulla salute mentale” di larghi strati della popolazione, man mano che diventa sempre più difficile “poter spaziare con lo sguardo su ampie distese d’acqua, orizzonti liberi e montagne che svettano nel cielo”. Almeno “per una o due settimane all’anno”, si accontenterebbe la Ehrenreich.
    Se, come sostiene la psicologa Nancy Etcoff “il bisogno di bellezza naturale è codificato nel nostro patrimonio genetico” (in quello di ogni essere umano, non di pochi privilegiati) c’è il rischio che un gran numero di persone possa cadere “vittima di una claustrofobia cronica e crescente”.
    Oppure, in alternativa, che si diffondano ulteriormente i gruppi ecologisti radicali come l’Earth Liberation Front da anni stanno dando filo da torcere anche all’FBI con le loro “azioni dirette in difesa della terra” contro Suv, case di lusso, aziende del legname e cantieri di espansione urbana.
    Gianni Sartori

  4. da ambientalista (iscritto a più di una associazione, tra cui Legambiente) e da sostenitore di Salviamo il Paesaggio, non nascondo una certa preoccupazione.
    Intendiamoci: nessuno è favorevole all’eolico selvaggio. Occorre però, pragmaticamente, decidere cosa vogliamo, anche noi ambientalisti e iniziare a sporcarsi le mani con i numeri, che spesso sono scomodi.
    Dunque un fermo e sacrosanto NO ai combustibili fossili responsabili, tra l’altro, dell’effetto serra. Restano rinnovabili, nucleare, o l’età della pietra. No al nucleare? sì al PC, sì allo smartphone, sì a alle comodità moderne? restano le rinnovabili, con la sgradevole caratteristica di essere intermittenti e molto “diluite” (tradotto: servono grandi superfici per intercettare sufficienti quantità di energia).
    E’ un dibattito che il mondo ambientalista, specie se vuole attenersi ad un sano e soprattutto scientifico pragmatismo, dovrà presto affrontare se non vuole scomparire o rimanere, come oggi, nella marginalità.

    1. Concordo in pieno. Questo appello pare scritto da Chicco Testa in persona… Avanti con le fossili!

  5. Vedo che la più grande ass. ambientalista Legambiente non firma l’appello. Forse perchè pensa di far rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta.
    La vicenda della centrale Fotovoltaica di Cutrofiano (Parco dei Paduli), di cui Legambiente era direttamente “interessata” è emblematica, (invito tutti a leggere su google) ed ha fatto chiaramente emergere che non tutte le Associazioni Ambientaliste Italiane e Pugliesi erano direttamente coinvolte nella speculazione del Fotoviltaico SU TERRENI AGRICOLI.

  6. appello giusto. concordo. solo vorrei che qualcuno mi spiegasse come sia stato possibile dare la presidenza del comitato locale Unesco all’ex sindaco di San Sostene, in Calabria, devastato da un parco eolico di quasi 100 pale in montagna. su un crinale.

  7. INIZIATIVA lodevole!
    Speriamo ,che chi di dovere ascolti l’appello è non si facci influenzare dal potere economico e mediatico delle lobby del settore…

  8. Ottimo!
    Un sentito grazie allo staff editoriale di Salviamo il Paesaggio per la pubblicazione dell’appello.

  9. Saggio appello! Da noi tutto è buono per speculare. Orlando e Bray tirino fuori gli attributi e si facciano sentire una volta per tutti, altrimenti saranno sempre dei ministri di serie B.

    1. E’ finalmente ora di scoperchiare il vaso di pandora di tante speculazioni finalizzate al guadagno facile piuttosto che alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio. Le energie verdi debbono essere realizzate da ora in poi per piccoli impianti, sostenibili e a diretto utilizzo di edifici esistenti. Basta sprechi di denaro pubblico con insentivi ormai insostenibili.

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