di Paolo Berdini da controlacrisi.org
Nel 2009 quando approvò il Piano casa che diede il via a quelli regionali, Berlusconi affermò che il provvedimento avrebbe fatto aumentare il Pil di 4 o 5 punti. Da allora è iniziata la più grave crisi del settore edilizio e, nonostante tutti gli sforzi di spianare la strada alla speculazione edilizia, la crisi si è ulteriormente aggravata.
Molte regioni continuano tuttavia a credere nella capacità salvifica del piano casa. Tra di esse c’è la regione Lazio che vuole addirittura portare in approvazione una proroga dei termini di scadenza del Piano casa approvato sotto le giunte Marrazzo e Polverini.
Insomma, se il piano casa ha fallito i suoi obiettivi – e questa diagnosi vale per tutte le regioni italiane – la ricetta della giunta Zingaretti è quella di prorogare la legge fallita. Il fatto grave è che di fronte ad una crisi occupazionale imponente (l’edilizia italiana ha dimezzato il numero dei lavoratori dal 2008 ad oggi, altro che i quattro conque punti di pil) non si vuole prendere atto che siamo dentro una crisi strutturale. Si continua insomma a far finta di credere che la crisi edilizia sia congiunturale mentre invece siamo nel pieno di un passaggio epocale.
Nomisma ha stimato che esistono 700 mila alloggi nuovi invenduti: siamo evidentemente in una fase di sovraproduzione e di fronte a questo non c’è piano casa che tenga. Per far ripartire gli interventi urbani e l’edilizia occorrono provvedimenti coraggiosi e innovativi, finanziamenti pubblici adeguati e politiche per la realizzazione di alloggi a prezzi calmierati.
Cosa dice su questo tema fondamentale per far ripartire il sistema Italia il piano casa Zingaretti – Civita? Nulla. Afferma in primo luogo –prima tra le regioni italiane- che il piano casa deve restare ancora in vigore. Va sottolineato il fatto che alcune regioni italiane hanno ragionevolmente preso atto del fallimento e hanno rispettato la scadenza prevista lasciando scadere i propri piani casa.
La proposta di legge lascia inalterate le possibilità contenute nei precedenti dispositivi di consentire la variante automatica rispetto ai piani regolatori comunali. Si continua insomma a prevedere la possibilità che un proprietario di un edificio industriale ubicato in qualsiasi parte del territorio, anche quelle isolate dal contesto urbano o vicine a grandi infrastrutture di trasporto – e dunque aree che non dovrebbero essere abitate se vivessimo in un paese civile – possono diventare abitazioni.
Sono norme criminali ed è grave che un’amministrazione di differente cultura da quella che aveva approvato questi articoli, continui ad accettarli. Evidentemente la vita delle persone in carne ed ossa che andranno ad abitare in quei manufatti vale molto meno del guadagno che la speculazione immobiliare si metterà in tasca.
Al riguardo, a ulteriore conferma della insensibilità sociale che accomuna la politica che governa la regione Lazio, nella legge sono state mantenute anche le facilitazioni agli speculatori in materia di attuazione dei servizi pubblici obbligatori.
Quando infatti un promotore dell’operazione speculativa non ha la possibilità di realizzare i servizi previsti dalle leggi, viene lasciata la possibilità di monetizzare questo diritto pagando al comune una modesta cifra. Diritti universali barattati con una monetizzazione. Chi ha confermato questa legge dovrebbe conoscere le legislazioni delle nazioni europee che non sono ancora giunte al nostro livello di barbarie culturale.
E così veniamo al punto maggiormente dolente della legge, dopo quello della cultura della deroga urbanistica, e cioè quello di fingere che con gli aumenti di cubatura concessi si possano ottenere case “sociali”.
Visto insomma che nessuno può negare che venti anni di deregulation abbiano prodotto una grave crisi abitativa per le famiglie a basso reddito e per i giovani, si continua ad ingannare la popolazione inserendo nella legge che una percentuale delle maggiori volumetrie strappate dalla speculazione edilizia dovranno essere destinate ad alloggi in affitto a importo calmierato.
Sono due le osservazioni che devono essere fatte su questo punto. Ad oggi non c’è nessun esempio di applicazione di questa norma e nessun alloggio a canone calmierato è stato immesso sul mercato. Ma il legislatore regionale non prende atto del fallimento e continua a prevedere questa possibilità. Ma una seconda osservazione è ancora più importante.
Ammesso che questa norma funzioni essa metterebbe sul mercato alloggi a canone meno esoso del mercato libero ma pur sempre indirizzati a coloro che possono permettersi di pagare un affitto, e cioè a famiglie che percepiscono almeno un reddito sicuro. Le fasce giovanili e le famiglie più povere sono escluse da questo provvedimento e sono condannate ad una vita di precarietà abitativa, a coabitazioni o a trasferirsi lontano da Roma, dove i valori immobiliari sono più modesti.
La filiera della realizzazione di alloggi pubblici è come noto stato abbandonato da anni. Non vengono previsti finanziamenti o agevolazioni ai comuni per acquistare aree edificabili. Nelle città c’è un unico attore: l’iniziativa privata. Intorno ad essa è stata costruita in questi ultimi due decenni una cortina fumogena di retorica e ideologia. Si era sostenuto infatti che la cancellazione delle regole e dei finanziamenti pubblici avrebbe rimesso in moto le città. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: mancano case per le fasce sociali povere e c’è un mare di abitazioni invendute destinate ad un altro segmento di domanda.