Questa è la traduzione di un articolo di Toby Hemenway apparso originariamente su Pattern Literacy e ripubblicato su Our Finite World.
La propongo come commento a uno dei temi principali di questo sito, la difesa del ‘suolo agricolo’ come unica possibilità, dimenticando che ci sono se non altro delle alternative.
Nota: in inglese, culture significa sia cultura che coltura; nella traduzione a seconda del contesto si sono utilizzati entrambi i termini.
Gaia Baracetti
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Agricoltura sostenibile: un ossimoro?
di Toby Hemenway
Jared Diamond la chiama ‘il peggior errore nella storia della razza umana’ (1). Bill Mollison la accusa di ‘distruggere interi paesaggi’ (2). Stanno parlando dell’energia nucleare? Delle periferie urbane? Dell’estrazione di carbone? No. Stanno parlando dell’agricoltura.
Il problema non è solo che le attuali coltivazioni industriali stanno distruggendo il suolo e la biodiversità. L’agricoltura in qualsiasi sua forma è inevitabilmente insostenibile. Le si può imputare di aver creato la base per la separazione, nella nostra cultura, tra esseri umani e natura; di aver causato molte malattie e peggiorato lo stato di salute, e di aver dato origine a gerarchie basate sul dominio e allo stato di polizia. Si tratta di accuse pesanti: verifichiamole.
La permacultura, pur abbracciando numerose discipline, ruota fondamentalmente attorno al cibo. Anche gli antropologi sono d’accordo sul fatto che il cibo definisce una cultura più dei nostri altri due bisogni fisici di riproduzione e protezione. Una volta costruita, una casa può essere abitata per decenni. Un breve incontro sessuale basta per una gravidanza. Ma il cibo dev’essere procacciato ogni giorno, solitamente più volte al giorno. Fino a tempi recentissimi, tutti gli esseri umani dedicavano molto del loro tempo alla ricerca di cibo, e i vari modi in cui lo facevano hanno portato alla diversificazione delle culture.
L’antropologo Yehudi Cohen (3) e molti studiosi successivi dividono le culture umane in cinque categorie, a seconda della modalità di acquisizione del cibo: raccoglitori (o cacciatori-raccoglitori); orticoltori; agricoltori; pastori e culture industriali. Sapendo in quale di queste categorie rientra un popolo consente di conoscere già molte sue caratteristiche. Per esempio, i raccoglitori sono solitamente animisti/panteisti; vivono in un mondo ricco di spiriti nel quale tutti gli esseri animati e molti di quelli inanimati godono di uno status che è per valore e significato pari a quello degli esseri umani. I raccoglitori vicono in piccoli gruppi e tribù. Alcuni membri possono eccellere rispetto ad altri in certi ambiti, come la fabbricazione di utensili o la medicina, ma quasi nessuno ha specializzazioni esclusive, e tutti aiutano a procacciare cibo. Possono esserci capi o sciamani, ma le gerarchie sono quasi inesistenti e tutti i membri possono entrare in contatto facilmente con i loro capi. Una schermaglia che fa due o tre morti è per loro già una grossa guerra. La maggior parte delle loro calorie derivano dalla carne o dal pesce, integrati da frutta fresca e con guscio, cereali spontanei e tuberi (4). È difficile che un raccoglitore sfrutti eccessivamente il suo ambiente: il legame è così stretto che la distruzione di una risorsa porterà alla fame nel giro di una stagione. Le popolazioni tendono a raggiungere il loro picco con un numero relativamente basso di individui, e poi a stabilizzarsi.
La prima economia della crescita
Gli agricoltori, invece, venerano dei il cui messaggio, solitamente, è che gli esseri umani sono esseri prescelti, destinati a dominare il Creato, o quantomeno ad esserne i guardiani. Una simile distinzione tra umanità e natura fa sì che il degrado ambientale non sia solo inevitabile, ma anche un indice di progresso.
Mentre la carne e il cibo selvatico che formano la dieta di un raccoglitore deperiscono rapidamente, i cereali coltivati, una pietra miliare nell’innovazione portata dall’agricoltura, possono essere immagazzinati e accumulati, anche con un surplus rispetto alle esigenze immediate. Inoltre, la coltivazione compensa i cali stagionali di disponibilità di cibo che mantengono a bassi livelli le popolazioni di raccoglitori.
Avendo campi da coltivare e un surplus da immagazzinare, i primi agricoltori tendevano alla sedentarietà. Dal momento che i cereali andavano lavorati, e gli utensili e i macchinari per la trebbiatura e mondatura diventavano sempre più sofisticati e aumentavano di dimensione, la tendenza alla sedentarietà subì un’accelerazione (5).
I cereali forniscono più calorie, o energia, rispetto al peso di quanto faccia la carne magra. Le proteine contenute nella carne vengono trasformate facilmente in massa corporea – uno dei motivi per cui i cacciatori-raccoglitori tendono a essere più alti degli agricoltori – ma la trasformazione della proteina in energia ha un alto costo metabolico ed è inefficiente (6). Amidi e zuccheri, i principali componenti delle piante, vengono convertiti molto più facilmente in calorie rispetto alle proteine, e le calorie sono il principale fattore limitante nella riproduzione. Il passaggio da calorie derivanti dalla carne a calorie derivanti dai carboidrati significa che, supponendo lo stesso apporto di proteine, un gruppo che deriva le sue calorie principalmente dalle piante si riprodurrà molto più rapidamente di un gruppo che deriva le sue calorie dalla carne. Questo è uno dei motivi per cui le culture agricole hanno tassi di natalità più alti delle società di raccoglitori.
Inoltre, l’agricoltura allenta il legame tra danno ecologico e disponibilità di cibo. Se i cacciatori-raccoglitori decimano un branco di antilopi nella loro zona, la conseguenza sarà la fame e un basso tasso di natalità per i cacciatori. Se i cacciatori si sposteranno o moriranno, il branco di antilopi si riprenderà in fretta. Ma quando una foresta viene abbattuta per coltivare la terra, la perdita di biodiversità ha come conseguenza una maggiore disponibilità di cibo per le persone. Il suolo inizia ad impoverirsi da subito, ma gli effetti non saranno evidenti per molti anni. Quando il suolo è esaurito, com’è il destino di quasi tutti i suoli agricoli, per decenni l’ecosistema farà fatica a riprendersi.
Ma, mentre il suolo viene progressivamente eroso, i raccolti sfamano un villaggio in crescita. Tutti questi fattori – la possibilità di immagazzinare il cibo, il surplus, le calorie derivanti dai carboidrati, e un feedback lento da parte di ecosistemi che si stanno progressivamente degradando – fanno sì che nelle culture agricole la popolazione inevitabilmente cresca. Non è quindi una coincidenza che i contadini siano anche conquistatori. Una popolazione in crescita ha bisogno di più terra. I campi impoveriti costringono la popolazione a impadronirsi di territorio vergine. In confronto, le culture di cacciatori-raccoglitori di solito sono molto legate a un luogo specifico: conoscono le abitudini delle specie che vi si trovano e hanno una cultura che si costituisce attorno a un determinato posto.
Raramente conquistano nuove terre, dato che un nuovo territorio e le sue specie diverse altererebbero la conoscenza, le storie e le tradizioni di una cultura. Ma l’espansione è intrinseca alle società agricole. Il grano e gli altri cereali possono crescere quasi ovunque, pertanto la coltivazione, a differenza della raccolta, richiede minore appartenenza a un territorio.
Pur riconoscendo questi problemi strutturali dell’agricoltura, l’abbandono dell’attività di raccolta sembra a prima vista vantaggioso perché – così ci viene insegnato – l’agricoltura ci permette il tempo libero necessario per sviluppare l’arte, la conoscenza, e tutti gli altri lussi di una cultura raffinata. Questa credenza persiste nonostante gli antropologi abbiano per gli ultimi quarant’anni raccolto prove evidenti del contrario. Una raccoglitrice esperta può recuperare in tre ore e mezza abbastanza granoturco selvatico per sfamarsi per dieci giorni (7). Un’ora di lavoro può produrre un chilogrammo di monococco. I raccoglitori hanno tempo libero in abbondanza da dedicare ai piaceri non legati alla mera sopravvivenza. Le opere nelle caverne di Altamira e Lascaux, e altre simili, sono la prova che l’agricoltura non è un prerequisito indispensabile perché si sviluppi una cultura complessa. Infatti, c’è molta più varietà nell’arte, nelle religioni, e nelle tecnologie delle culture di cacciatori-raccoglitori di quanta ve ne sia tra culture agrarie, che tendono a somigliarsi abbastanza (3). E, some sappiamo, la società industriale permette la minor diversità in assoluto, non tollerando altro che una singola cultura globale.
Tanto tempo libero
Ci viene anche insegnato che le vite dei raccoglitori sono “sudice, bestiali e brevi”, per usare la famosa descrizione hobbesiana. Ma le sepolture a Dickson Mounds, un sito archeologico dell’Illinois che comprende la transizione dalla caccia e raccolta alla coltivazione di mais, mostrano che i contadini avevano il 50% in più dei problemi ai denti tipici della malnutridionze, quattro volte l’anemia, e una maggiore incidenza di degenerazione della colonna vertebrale, segno di una vita di duro lavoro, rispetto ai loro antenati raccoglitori reperiti nello stesso sito (8). La durata media della vita diminuì da una media di 26 anni ai 19 dei contadini. Nella Turchia e nella Grecia preistoriche, l’altezza media dei raccoglitori era 1.75 m per gli uomini e 1.68m per le donne; con il passaggio all’agricoltura crollò di 5 inches (1). I discendenti dei raccoglitori turchi non hanno ancora raggiunto l’altezza degli antenati. In quasi tutti i casi conosciuti, i raccoglitori mostravano una dentatura migliore e meno incidenza di malattie rispetto alle successive culture agricole trovate nello stesso sito. Dunque le calorie facili dell’agricoltura furono pagate con cattiva nutrizione e cattiva salute.
Tendiamo a immaginare i cacciatori-raccoglitori come frequentemente affliti da tragiche carestie, ma anche qui gli agricoltori se la passano peggio. I raccoglitori, con le loro minori densità demografiche, una maggiore varietà nell’alimentazione, e maggiore mobilità, possono trovare cibo in quasi ogni condizione. Ma anche gli agricoltori ricchi soffrono regolarmente la fame. Il grande storico Fernand Braudel (9) ha dimostrato che anche la relativamente ricca e acculturata Francia ha sofferto carestie nazionali 10 volte nel decimo secolo, 26 nell’undicesimo, 2 nel dodicesimo, 4 nel quattorcidesimo, 7 nel quindicesimo, 13 nel sedicesimo, 11 nel diciassettesimo, e 16 nel diciottesimo secolo. Senza contare le numerosissime carestie locali che si verificarono in aggiunta a quelle su più larga scala. L’agricoltura non è diventata una fonte affidabile di cibo finché i combustibili fossili non ci hanno fornito le enormi sovvenzioni energetiche necessarie per evitare carenze alimentari. Quando l’agricoltura non potrà più venire sovvenzionata dal settore petrolchimico, la fame tornerà a bussare di nuovo regolarmente alle nostre porte.
L’agricoltura ha bisogno di sempre più carburanti per sostenere la crescita della popolazione che lei stessa genera. I raccoglitori possono ricavare fino a 40 calorie di energia alimentare per ogni caloria che spendono nella raccolta. Non hanno bisogno di procurarsi fertilizzante e distribuirlo, irrigare, costruire terrazzamenti o prosciugare i campi, tutte attività che riducono l’energia netta ricavata dal cibo. Ma sin da quando le prime piante vennero coltivate, la quantità di energia necessaria per produrre il cibo è in costante aumento. Un semplice aratro di ferro richiede che milioni di calorie vengano bruciate per estrarre, trasportare e fondere metallo. Prima del petrolio, la fabbricazione di un aratro significava che una dozzina o più di alberi dovevano essere tagliati, trasportati e convertiti in carbone per la fucina. Anche se l’aratro con il suo lavoro ripagherà queste calorie sottoforma di cibo, tutta questa energia è stata sottratta all’ecosistema e spesa dagli esseri umani.
Prima del petrolio, l’agricoltura dipendeva anche dal lavoro degli animali, richiedendo terreno aggiuntivo per il pascolo e la produzione di fieno e contribuendo quindi alla conversione di ecosistemi in persone. Da secoli il ritorno calorico dell’agricoltura è negativo, e il ritorno rispetto all’energia spesa ha continuato a peggiorare, finché siamo arrivati a utilizzare una media di 4-10 calorie per ogni caloria di cibo prodotto.
L’agricoltura, quindi, non richiede solo terreno per le coltivazioni. Ha bisogno di ulteriori ettari per la fornitura di fertilizzante, mangime per animali, combustibili e metalli per la fabbricazione di attrezzi, e così via. L’agricoltura ha bisogno di prosciugare l’energia e la biodiversità della terra che circonda le coltivazioni, degradando sempre più ambienti selvatici.
Per gli agricoltori l’ambiente selvatico è una presenza sgradita, una fonte di animali infestanti e di insetti, nonché terra “sprecata”. Verrà sempre distrutto. Se a questo aggiungiamo il surplus calorico generato dall’agricoltura e la necessità di famiglie numerose per il lavoro dei campi, è evidente che il tasso di natalità crescerà esponenzialmente. Con questa spietata aritmetica di crescita demografica e fame di terra, gli ecosistemi terrestri verranno progressivamente e inesorabilmente convertiti in cibo per gli esseri umani e utensili per produrre cibo.
Le culture di cacciatori e raccoglitori comprendono sistemi di controllo della popolazione, dato che le piante e gli animali da cui dipendono non possono essere prelevati in quantità eccessive senza immediate conseguenze negative. Ma l’agricoltura non ha una simile limitazione strutturale al sovrasfruttamento delle risorse. Al contrario: se un contadino lascia riposare la terra, il primo vicino che la coltiva ne trae un vantaggio. L’agricoltura porta sia alla gara a produrre cibo che all’esplosione demografica (non posso fare a meno di chiedermi se un’alimentazione carnivora in cima alla piramide alimentare non sia in fondo un atto più responsabile che un’alimentazione a base di cereali, che finisce per favorire la crescita della popolazione. Prima o poi gli esseri umani devono recepire il messaggio: bisogna riprodursi meno).
Possiamo fare delle leggi che impediscano alcuni dei danni che l’agricoltura causa, ma queste regole avranno l’effetto di ridurre i raccolti. Appena il cibo inizia a scarseggiare, le leggi veranno ritirate. Non si sono limiti strutturali alle tendenze ecologicamente dannose dell’agricoltura.
Tutto questo significa che l’agricoltura è intrinsecamente insostenibile.
L’agricoltura fa anche danni di tipo sociale e politica. Un surplus, raro e sfuggente per le società di raccoglitori, è l’obiettivo principale dell’agricoltura. Il surplus deve poi essere immagazzinato, il che richiede tecnologia e materiali per costruire magazzini; persone che lo proteggano, e un’associazione gerarchica che centralizzi la gestione del surplus e decida come distribuirlo. Offre anche un obiettivo per le lotte di potere locali e per i furti ad opera di gruppi vicini; le guerre aumentano di dimensioni. Con l’agricoltura, il potere viene quindi concentrato in sempre meno mani. Chi controlla il surplus controlla il gruppo. L’agricoltura porta per sua natura a una perdita di libertà personale.
A un estremo del continuum culturale di Cohen c’è la società industriale. L’industrialismo è in realtà solo una manifestazione dell’agricoltura, dal momento che l’industria dipende dall’agricoltura per la fornitura di materiali grezzi a basso costo a cui “aggiungere valore”; di spazio in cui esternalizzare l’inquinamento e altri costi, e di manodopera a poco prezzo. Le culture industriali hanno impronte ecologiche enormi, una bassa natalità, e alti costi del lavoro, come conseguenza dell’impiego di gigantesche quantità di risorse – istruzione, infrastrutture complesse, vari livelli di governo e strutture legali, e così via – per ogni singola persona. Questo livello di complessità è impossibile da mantenere autonomamente. L’energia e le risorse necessarie devono essere prelevate dalle regioni agricole circostanti. Là si trovano le culture più semplici, gli alti tassi di natalità, e conseguentemente i bassi costi del lavoro che servono a sovvenzionare la complessità dell’industria.
Una cultura industriale deve anche esternalizzare i costi verso località rurali attraverso l’inquinamento e l’esportazione di rifiuti. Le città trasportano i loro rifiuti nelle aree rurali. Le culture industriali sovvenzionano e appoggiano regimi tirannici allo scopo di mantenere bassi i prezzi delle risorse e della manodopera. Queste tendenze spiegano perché, ora che gli Stati Uniti sono passati da una base agraria a una industriale, gli americani non possono più permettersi di consumare prodotti domestici e devono dipendere da paesi agrari, come la Cina e il Messico, o da regimi autoritari, come quello dell’Arabia Saudita, per la fornitura di input a basso costo. Il Terzo Mondo serve al Primo Mondo per esternalizzare il fardello schiacciante del mantenimento della complessità dell’industrialismo. Ma prima o poi non ci saranno più posti in cui esternalizzare.
La salvezza nell’orticoltura
Come giù accennato, Cohen individua un’altra cultura tra la raccolta e l’agricoltura. È rappresentata dagli orticoltori, che utilizzano tecniche semplici per coltivare piante utili e allevare animali. L’orticoltura così intesa è difficile da definire con precisione, dato che la maggior parte dei raccoglitori intervengono almeno in parte su alcune piante, la maggior parte degli orticoltori raccolgono piante spontane, e a un certo punto compreso tra l’adozione di un bastone da scavo e quella di un aratro una popolazione diventa agricoltrice. Molti antropologi sono concordi sul fatto che l’orticoltura solitamente richiede un periodo di riposo per la terra, mentre l’agricoltura utilizza il sistema della rotazione delle colture, l’apporto esterno di fertilizzante, o altri metodi. L’agricoltura è anche praticata su scala più vasta. In parole povere, gli orticoltori sono giardinieri più che contadini.
Gli orticoltori difficilmente si organizzano a livelli più alti di quello della tribù o del villaggio. Anche se sono a volte influenzati dal monoteismo, dalle divinità celesti e dai messaggi messianici degli agricoltori loro vicini, gli orticoltori solitamente venerano gli spiriti della natura e considerano la Terra un organismo vivente. La maggior parte delle società orticoltrici sono molto più egualitarie di quelle agricole, e non hanno despoti, eserciti, e gerarchie centralizzate che li controllano.
L’orticoltura è tra i metodi conosciuti il più efficiente per ottenere del cibo, con il miglior ritorno sull’energia impiegata. Si può pensare all’agricoltura come a un’intensificazione dell’orticultura: utilizza più manodopera, terra, capitale e tecnologia. Questo significa che l’agricoltura solitamente consuma più calorie di lavoro e di risorse di quante possono essere prodotte dal cibo, ed è quindi dal lato sbagliato dei ritorni decrescenti. Corrisponde quindi a una buona definizione di ‘insostenibile’, mentre l’orticoltura si colloca probabilmente dal lato positivo della curva dei ritorni. Secondo Godesky (10) è così che si può distinguere l’orticoltura dall’agricoltura. Potrebbero volerci molti millenni, come vediamo, ma l’agricoltura prima o poi esaurirà gli ecosistemi del pianeta, mentre l’orticoltura potrebbe non farlo.
Gli orticoltori utilizzano le policolture, le piante perenni, gli alberi, e un ricorso limitato all’aratura, e hanno una relazione intima con le diverse specie di piante ed animali. Somiglia alla permacultura, no? La permacultura, promuovendo gli ideali dell’orticoltura rispetto a quelli dell’agricoltura, potrebbe indicare la strada da percorrere per un ritorno alla sostenibilità. L’orticultura ha limiti strutturali che impediscono grosse popolazioni umane, l’accumulo di surplus, e strutture centralizzate di controllo e dominio. L’agricoltura inevitabilmente porta a tutte queste.
Un caro prezzo
Adottando l’agricoltura, abbiamo abbandonato un buono stato di salute e un’immensa libertà personale. Una volta, consideravo il Codice di Hammurabi, la Magna Carta, e il Bill of Rights pietre miliari sulla strada dell’umanità verso una società giusta e libera. Ma sto cominciando a vederli più come dighe sempre più larghe e sempre più disperate per fermare l’onda montante delle violazioni dei diritti umani e della centralizzazione del potere che sono intrinsechi alle società agricole e industriali. La conseguenza dell’agricoltura è, sempre, la concentrazione di potere nelle mani delle elite. A questo porta inevitabilmente la creazione di surplus immagazzinabile che è il fondamento dell’agricoltura.
Non è un caso che il terzo principio etico della permacultura affronti il problema del surplus. Molti permacultori sono giunti alla conclusione che il semplice dettame di Mollison, condividere il surplus, affronta molto superficialmente la complessità del problema. Per questo il suo principio è stato spesso modificato fino a diventare un meno problematico ‘restituisci il surplus’ o ‘reinvesti il surplus’, ma il fatto che queste versioni alternative non si siano ancora stabilizzate in una formulazione condivisa, così come hanno fatto gli altri suoi due principi – ‘prenditi cura della terra’ e ‘prenditi cura delle persone’ – mi fa pensare che i permacultori non abbiano ancora veramente risolto il problema del surplus.
Ma il problema potrebbe non essere come gestire il surplus. Forse dovremmo creare una cultura in cui il surplus, e la paura e l’avidità che lo rendono desiderabile, non sono più le conseguenze strutturali delle nostre pratiche culturali. Jared Diamond potrebbe aver ragione: l’agricoltura e gli abusi che genera potrebbero rivelarsi come una deviazione lunga diecimila anni sulla strada per un’umanità matura. La permacultura potrebbe essere più di uno strumento per la sostenibilità. Lo stile di vita orticolturale che segue potrebbe indicare la strada verso la libertà umana, la salute, e una società più giusta.
Note
[…] il tema dell’agricoltura come commento a uno dei principali argomenti trattati dal Forum Nazionale “Salviamo il Paesaggio – Difendiamo i Territori”: la difesa del suolo […]
l’agricoltura è importantissima
L’articolo è ben fatto esponendo i problemi legati allo sfruttamento della terra. Però bisogna anche pensare; come si fa a sfamare 6.000.000.000 di persone,facendo solo agricoltori/raccoglitori o orticoltori, non è possibile. Per riconsiderare tutto il ciclo alimentare mondiale, bisognerebbe ripartire dai soli agricoltori che nel mondo saranno 200/500.000.000 e come agricoltori/raccogliotori/ortolani riuscirebbero a fatica a sfamare al massimo 1/2.000.000.000 di persone. A quel punto dovremo riconsiderare il tutto sapendo che si parlerà poi di guerre totali per riuscire a mangiare.
Articolo interessante. Tutto vero. Dal Manifesto per la Terra di Mosquin e Rowe (www.ecospherics.net):
“L’esperimento dell’umanità, vecchio di diecimila anni, di adottare un modo di vita a spese della Natura e che ha il suo culmine nella globalizzazione economica, è fallito. La ragione prima di questo fallimento è che abbiamo messo l’importanza della nostra specie al di sopra di tutto il resto. Abbiamo erroneamente considerato la Terra, i suoi ecosistemi e la miriade delle sue parti organiche/inorganiche soltanto come nostre risorse, che hanno valore solo quando servono i nostri bisogni e i nostri desideri. E’ urgente un coraggioso cambiamento di attitudini e attività. Ci sono legioni di diagnosi e prescrizioni per rimettere in salute il rapporto fra l’umanità e la Terra, e qui noi vogliamo enfatizzare quella, forse visionaria, che sembra essenziale per il successo di tutte le altre. Una nuova visione del mondo basata sull’Ecosfera planetaria ci indica la via.”
Articolo molto interessante. Grazie per averlo tradotto e sottoposto alla nostra attenzione.
concordo con molte di queste teorie ,in modo particolare l’idea che queste scelte siano dettate solo da interessi, di potere di varie natura ;il controllo della produzione,il controllo dei semi ,ecc.
pertanto ,credo che si debba lavorare ,non solo sull’agricoltura odierna,che ora ha dei costi troppo elevati in energia.Penso che l’agricoltura attuale ,vada modificata nei fondamenti.Vedi monoculture ,che mortificano i terreni, questi terreni sono morti.Pertanto penso sia necessario un cambiamento radicale,anche con l’impiego di risorse umane ,seguire ;orticoltura ,e le plusvalenze la conservazione del suolo e delle biodiversità.