L’esaltazione ipocrita dell’Expo 2015

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“Prima c’erano i campi di sterminio, ora c’è lo sterminio dei campi ed è la stessa logica “. (Andrea Zanzotto)

Fra coloro che esaltano l’Expo e nutrono aspettative sul suo successo ci sono coloro che per decenni hanno lavorato, inconsapevolmente (spero), per affossare il ruolo e il peso economico dell’agricoltura. Mi riferisco a politici e amministratori locali che per decenni (taluni), nelle comunità dove sono stati eletti, non hanno saputo fare altro che rendere edificabili centinaia di migliaia di ettari di suolo fertile.

Non nego come l’azione politica e amministrativa in questi decenni abbia dovuto misurarsi, ora con l’esigenza di far fronte all’emergenza abitativa, ora con la necessità di favorire gli insediamenti produttivi per creare occupazione o la necessità di adeguare le infrastrutture. Ma tutto questo operare, legittimo, si è svolto spesso senza misura e a danno dell’ambiente, del paesaggio e soprattutto dell’agricoltura.

Emblematico e rappresentativo di questa dissennata politica autodistruttiva sono i luoghi dove l’Expo viene realizzata: si asfaltano campi di grano per ergervi una cattedra dalla quale pontificare su come nutrire il Pianeta.

La pubblicità televisiva dell’Expo enfatizza la parola “cibo” con voce ammaliante e con un tono quasi sacro e ci proietta in una rappresentazione fuorviante della triste realtà agricola del nostro paese, dove esistono, si, delle competenze enogastronomche di rilevo e dei prodotti alimentari favolosi, ma nello stesso tempo la base produttiva, ossia la terra che produce queste ricchezze, si sta velocemente e drammaticamente riducendo.

L’ultimo censimento ISTAT sullo stato dell’agricoltura italiana rileva come, dal 1970 al 2010, la superficie agricola sia diminuita del 28%.

Dal 1950 ad oggi la cementificazione e’ cresciuta’ del 166%, a fronte di un aumento della popolazione del 28%.

Sono statistiche estremamente drammatiche, che oltre a spiegare, in parte, il dissesto idrogeologico del nostro territorio dovuto all’abbandono dei suoli coltivabili da un lato e alla devastante cementificazione dall’altro, ci sbattono in faccia un problema che pensavamo risolto: quello della autosufficienza alimentare.

In poche parole, se questo trend non viene invertito, il popolo italiano rischia di consumare più cibo di quello che è in grado di produrre il suolo coltivabile del nostro bel paese.

A seguito di questa contrazione vien da chiedersi: potremo avere adeguata produzione di prodotti alimentari a chilometri zero? Quanto cibo e quanto cibo lavorato, col marchio del Made in Italy, che tanto bene fa alla nostra bilancia commerciale, potremo esportare? Quale sicurezza alimentare e quale controllo dei prezzi potremo garantire al nostro popolo se dovessimo dipendere da una filiera agroalimentare globalizzata (cinese, indiana, filippina, ecc.)?

Tutto questo degrado ambientale, sociale ed economico e’ stato reso possibile da una cattiva politica economica e industriale che ha marginalizzato il settore primario e da scelte amministrative di assessori e sindaci inconsapevoli (spero) della portata delle loro decisioni sul territorio.

E a proposito di enti locali basta pensare ad un dato sconvolgente: dal 1995 al 2009 (in quindici anni) i comuni hanno rilasciato permessi per costruire pari a 3,8 milioni di metri cubi!

Cosa è mancato a chi, con il nostro consenso distratto, ci ha amministrato per decenni?

È mancata la consapevolezza del “limite” ad uno sviluppo drogato dalla corruzione (quasi esclusivamente legata al cemento e alle infrastrutture stradali), dall’ignoranza di quali squilibri socio-economici e ambientali si venivano a creare, dall’incapacita’ di immaginare e prevedere il futuro a cui saremmo andati incontro.

Il “limite” è stato superato abbondantemente, come abbiamo visto dai dati statistici, ma sono purtroppo convinto che la percezione e la consapevolezza del pericolo di una catastrofe ambientale e sociale non sia ancora sufficientemente diffusa.

Cosa si può fare, sperando di essere ancora in tempo, per sanare almeno in parte questa ferita ambientale ed economica?

Innanzi tutto, bisogna gridare BASTA zone industriali (ce n’è una o più per ogni campanile). Il miracolo del Nord Est presenta il conto: si utilizzino le cubature industriali in eccesso (vedi i moltissimi “vendesi o affittasi capannoni varie metrature”).

BASTA nuove edificazioni: si ristrutturino le vecchie abitazioni e si trasformino le aree edificabili in aree agricole.

BASTA assessorati alle attività produttive che non considerino, in primis, l’agricoltura come un’attività produttiva.

BASTA nuove infrastrutture stradali: siamo pieni di arterie stradali e si continua a pensarne di nuove.

BASTA pensare che la competitività delle nostre aziende si misuri con la possibilità di accedere direttamente dal capannone alla grande arteria stradale.

BASTA ritenere che l’agricoltura, intesa come produzione di prodotti agroalimentari di qualità, loro trasformazione ed esportazione, combinata con tutela del territorio contro il dissesto idrogeologico, salvaguardia del paesaggio e conseguente attrazione di turismo, non possa contribuire in modo sostanzioso alla formazione del Prodotto Interno Lordo.

È in questo quadro assai fosco che trovo insopportabile la celebrazione dell’Expo disgiunta da una profonda autocritica della politica, rea di una mancata attenzione verso la figura dell’agricoltore e delle condizioni necessarie affinché l’agricoltura possa crescere e occupare suoli e parti di territorio, rendendolo più sicuro, più bello e più utile per l’autosufficienza alimentare.

Il tema di Expo e’ “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Può essere un’occasione per riflettere su come possiamo garantirci la sicurezza negli approvigionamenti alimentari. Può essere un’occasione per l’Italia per valorizzare le proprie risorse legate al cibo e farne uno strumento di sviluppo sostenibile. Può essere un’occasione per fermare la barbarie ambientale fatta di infrastrutture inutili e nocive che minano dal profondo la nostra capacità di alimentarci e di sfamare una popolazione in crescita. Può essere un’occasione per far ripartire l’economia che non deve essere più basata quasi esclusivamente su una industrializzazione forzata che, a causa di crisi settoriali ricorrenti, lascia dietro di se macerie ambientali e impoverimento di suoli non più sanabili.

Mi chiedo se come sistema paese ci stiamo garantendo un futuro di lavoro e di benessere legato anche alle attività del settore primario e ad un suo sviluppo. Andiamo giustamente orgogliosi del Parmigiano, del Prosecco, della pizza, della pasta, dell’olio extra vergine d’oliva, ma stiamo veramente facendo tutto il possibile perché questi beni preziosi, frutto della fatica e del nostro ingegno, possano costituire, assieme al paesaggio (non deturpato), al turismo culturale, artistico ed enogastronomico, le nostre vere materie prime? La mia risposta è no, non lo stiamo facendo.

Per questo fra le tante emergenze con cui è alle prese il nostro paese c’è anche questa: restituire sovranità e rispetto alla terra. Gli indiani d’America, ma anche i nostri nonni, che hanno reso fertile e bella la campagna veneta, hanno compreso il valore della terra e hanno cercato di consegnarla in buone condizioni alle future generazioni. La terra è vita, le piante (esseri viventi) che in essa crescono, con le radici dentro la terra e i rami protesi verso il cielo ci ricordano la nostra dimensione spirituale.

Ripenso con nostalgia alle parole di una canzone per bambini scritta da Gianni Rodari dal titolo “per fare un fiore”. Rodari ci ricorda l’andamento circolare del ciclo della vita e l’interdipendenza e il legame fra tutti gli esseri viventi: “per fare un fiore ci vuole il seme, per fare il seme ci vuole il frutto, per fare il frutto ci vuole l’albero, per fare l’albero ci vuol la terra, per far la terra ci vuole il fiore”.

Abbiamo bisogno di un nuovo Rinascimento dell’anima per cogliere e desiderare la bellezza della natura che si manifesta sulla nuda terra. Per mezzo secolo il pensiero occidentale antropocentrico ha coniugato sviluppo con scempio illimitato di risorse, rendendo la società grigia, cupa, senza futuro. L’Expo non può essere una maschera dietro cui nascondere gli errori gravi commessi da politici e amministratori della cosa pubblica, confidando magari che le luci abbaglianti della celebrazione del cibo possano fermare il nostro declino.

Dante Schiavon

7 commenti

  1. sempre più frastornato dalle informazioni, dai commenti anche, dalla bellezza delle parole,non comprendo alla fine perchè parlando di cibo che ci sarà per 5-6mesi in un territorio a “lui” estraneo, tra l’autostrada ormai ristretta, la ferrovia, la fiera e altro, poi con cemento e costruzioni,questo cibo come verrà “conservato”per tutto il tempo?durante l’estate? celle frigorifere,serre climatizzate, tecnologie impreviste?Ho visto sulle coperture di qualche edificio terminato, passando in treno, la presenza di “macchine per il freddo”.Bene,direi, un bel segno a cui corrisponderà un brutto sogno.

  2. avete rotto con questa storia del paesaggio. Noi preferiamo i paesaggi costruiti .

  3. Gentile Gaia, la consapevolezza del limite fa fatica a farsi strada. Bisogna però immaginare una società diversa dove l’economia avrà un peso e un ruolo diverso. Ci sarà inevitabilmente più Stato per garantire un reddito di esistenza a fronte di una diminuzione dell’occupazione industriale, perché non solo la terra da salvare, ma la stessa tecnologia ci costringe a pensare una società diversa. Riduzione di orario nei luoghi di lavoro, attività di volontariato per il territorio e per le persone, attività di tempo libero e tempo liberato, attività di manutenzione e ristrutturazione dell’esistente e del costruito, fonti rinnovabili, ecc. sono solo alcuni esempi di come può trasformarsi l’organizzazione della società e le nuove priorità. La decrescita per me vuol dire produrre quello che serve nel rispetto assoluto e sacro dell’ambiente e delle persone. Certo non può essere una società che si basa sulle regole attualmente in vigore, quelle del mercato e del profitto. Ci vorranno decenni ma non ci sono altre soluzioni.

  4. l’unica alternativa è quella di smettere di crescere, ma quanti a conti fatti sono realmente disposti a questo?
    è il sistema che impone la crescita perenne, tanto che l’Europa è da almeno 30 anni che deve importare immigrati per garantire un tasso di crescita demografico ed economico, ma ora questo non basta più…
    smettere di crescere vuol dire anche smettere di lavorare, o meglio di voler garantire un lavoro a tutti (che è poi l’utopia della politica moderna); ma che risvolti sociali può avere una diminuzione del lavoro? una desertificazione del benessere (reale o presunto)?
    poniamoci domande serie e facciamoci un esame di coscienza… siamo davvero disposti a decrescere?

    1. Non è detto che smettere di crescere vorrebbe dire non lavorare: basterebbe distribuire in maniera più sensata il lavoro che c’è. Se il governo volesse, e le parti sociali lo chiedessero, si potrebbe cominciare incentivando il part-time: far lavorare più persone a 4-6 ore di media al giorno, anziché le attuali 8-10 oppure 0. Staremmo tutti meglio: chi ora non lavora avrebbe un minimo introito, e chi lavora troppo potrebbe fare altre cose nella sua vita, nonché autoprodurre un po’ di quello che gli serve (cucinare anziché mangiare cibi industriali, riparare anziché comprare, e così via). Questo è un piccolo esempio di come la decrescita sarebbe possibile e desiderabile, e anche relativamente facile.

      1. guarda, capisco la tua posizione ma io resto dell’idea che la decrescita (globale e non del singolo nel globo che non vuole decrescere) non può essere certo felice ma sarà necessariamente lacrime e sangue… non c’è alternativa
        ma il fatto che sia lacrime e sangue non deve spaventare, perchè è naturalmente giusto che sia così, in fondo, per come la vedo io, la democrazia razionale è la rovina della specie umana, è ciò che ha portato alla deriva del nostro genere ed in un certo porterà all’estinzione
        in fondo, non so bene quale sia la tua posizione, ma tu stessa nel blog parlavi di passaggio all’agricoltura come regresso umano
        pensaci, il mondo moderno è diventato sterile e deve importare manodopera per compensare il rischio di impoverimento.. fino a che il gioco reggerà bene, ma poi?
        prendi le repubbliche baltiche, in 30 anni hanno perso circa il 30% della popolazione ed ora sono in crisi per questo, al momento riescono ancora a tamponare per la rendita accumulata, ma poi cadranno nel vortice della decrescita lacrime e sangue
        sono discorsi complessi che sintetizzati in poche righe possono essere maleinterpretati

  5. Sono d’accordo con la critica all’Expo, ma mi sembra che questo intervento non affronti le cause profonde: “Non nego come l’azione politica e amministrativa in questi decenni abbia dovuto misurarsi, ora con l’esigenza di far fronte all’emergenza abitativa, ora con la necessità di favorire gli insediamenti produttivi per creare occupazione o la necessità di adeguare le infrastrutture.”
    Perché servono sempre nuove case, nuove industrie, e nuove infrastrutture? Perché viviamo in un sistema che dipende dalla crescita economica E demografica per soddisfare i nostri bisogni, e non è in grado nemmeno di concepire un benessere slegato dalla crescita e dallo ‘sviluppo’.
    Questo articolo critica gli effetti della crescita senza nominarla, anzi auspica ‘sviluppo’ e ‘far ripartire l’economia’ – cioè altre parole per dire ‘crescita’. Se siamo sempre di più e pretendiamo un pil sempre più alto, come possiamo salvaguardare il suolo? È evidente che dovremmo utilizzarlo per produrre merci, lavoro, case, infrastrutture, eccetera, per le nostre esigenze sempre crescenti.
    Un intervento anti-Expo che non nomina nemmeno la crescita come fonte dei nostri problemi non è credibile.

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