Roma non fu costruita in un giorno. Per questo dubito che fu anche smantellata in poco tempo. La vulgata delle scuole medie mi rifilò un bidone: la città eterna distrutta dalle orde dei barbari.
Né i barbari, né ovviamente gli antichi romani avevano le inquietanti capacità tecnologiche di costruzione-devastazione delle quali noi oggi disponiamo (e di cui spesso facciamo vanto infantile). E non avevano tempo da perdere. Saccheggiarono, sì. Portarono via oro, argento e vasi di bronzo. Decapitarono, è plausibile, le statue degli imperatori e degli dei nemici. Sbriciolarono tratti di mura e fortificazioni, massacrarono persone e devastarono campi coltivati. Ma perché mai avrebbero dovuto sobbarcarsi l’immane fatica di radere al suolo le ville, i templi, i circhi, i palazzi?
A quello pensarono i papi. Sempre per lo stesso motivo: mancanza di tempo, di tecnologia, di condizioni. Il Mediterraneo, un tempo globalizzato, non poteva più rifornire l’Urbe dei marmi preziosi che l’avevano ornata in passato; ma a portata di mano c’era un’immensa cava di marmi splendenti a cielo aperto, pronti per riconvertirsi (e cristianamente convertirsi) agli usi e costumi della nuova civiltà egemone. Lo stesso arco di Costantino, quando l’impero era ancora al suo posto, fu decorato con marmi di spoglio. Una cultura assimilava l’assimilabile e per il resto si sostituiva a un’altra, prendendone i materiali, le decorazioni, le figurazioni, e adattandole ai propri scopi: angeli dove c’erano amorini e vittorie alate; palme e leoni, cervi e porte dell’Ade a servire una nuova e più vitale iconografia. Una sostituzione che non avvenne senza dolore e rimpianti se è vero, com’è vero, che il primo museo nella storia del mondo – i Capitolini – fu donato dal papa alla cittadinanza perché questa, in definitiva, non perdesse il contatto con le proprie gloriose origini.
Questa lunga premessa per riflettere sull’appellativo di “barbaro” da dare – o non dare – a chi oggi distrugge le forme del passato, in Siria, in Iraq o altrove. E per discutere del vero effetto che quella distruzione ha su di noi. Come mai l’annientamento di opere così lontane nel tempo e nello spazio ci tocca così tanto? La prima cosa che salta agli occhi è che la nostra reazione non riguarda affatto la sfera economica. Nessuno di noi ha mai pensato all’Iraq come a una meta turistica. Nessuno ha pensato a ipotetici venditori di souvenir, a improbabili comparse vestite da antichi assiri. Nessuno ha commentato: “Poveretti, gli hanno distrutto un indotto economico, gli hanno sottratto una possibilità di sviluppo”. Quei monumenti li vediamo oggi per la prima volta, non abbiamo mai pensato a loro – del resto sarebbe ridicolo – come al petrolio iracheno.
Allora cos’è che fa scattare in noi lo sdegno? Da un lato possiamo rispondere: il lutto. Una cosa del genere, una città ellenistica come gli idoli di Bamiyan, non è riproducibile. Una volta distrutta, lo è per sempre.
Ma andiamo avanti: il lutto si applica a un significato perduto. La cieca distruzione ha indebolito un’identità. Se sia poi la nostra, non ha importanza: si è perduta la possibilità che future generazioni si specchino in quelle nobili rovine e dicano “noi siamo questi”. Andiamo ancora avanti: il pensiero responsabile di queste distruzioni è lo stesso che decapita in diretta, che manda bambine a saltare in aria nei mercati. Un pensiero che, con un problema simile a quello degli aborriti imprenditori occidentali in cerca di pubblico e mercato, sgomita nell’affollatissimo cyberspazio facendosi largo con l’orrore indicibile. Se ha concepito le distruzioni di questi giorni, è, dunque, perché fanno orrore. Chi scrive ha incerte origini, come peraltro ognuno in Europa. Adolescente, se le dovette costruire. Viveva a Roma, e cominciò a girarla, ad assorbirne le forme, a farla propria. Non diversamente da un elettrauto di Pontida, si costruì una storia, un’immagine. L’equivalente di un elmo con le corna, di un dio Eridano, qualcosa insomma per dire “io sono questo”.
L’IS sa benissimo che, annientando le vestigia di Nimrud o le statue di Mosul, ferisce quella parte di noi che s’identifica nelle generazioni future, private per sempre di un pezzo di suolo coltivato millenni or sono ma che ancora ieri, più vivo che mai, ne nutriva l’immaginario.
Non sottovalutiamo l’insostituibile ruolo che i luoghi, natali o adottivi, hanno sullo sviluppo della persona. Essi hanno sulla costruzione dell’io un’influenza paragonabile a quella di un padre o una madre. È in nome di questa constatazione che, con preveggente saggezza, i padri della Costituzione italiana ne scrissero l’articolo 9. Non per garantirci una fonte di reddito da turismo. Bensì per tutelare il bene immateriale, non disponibile, non riproducibile, non commerciabile che – dalla parola padre, dalla parola patria – prende il nome di “patrimonio culturale”. Che non è disgiunto, come a questo punto dovrebbe essere chiaro, dal paesaggio della nostra terra, dalla scena della nostra infanzia, dal teatro nostro farci persone. Dalla vita che oggi viviamo, il cui significato quel paesaggio alimenta in maniera essenziale.
Claudio Arbib