A cura di Gabriele Rosso.
Prima il mare, poi i semi, quindi il cambiamento del vocabolario del cibo e infine la pubblicità. Seguire la traiettoria dei temi che Cinzia Scaffidi ha sviscerato nei libri pubblicati con Slow Food Editore dal 2007 a oggi vuol dire fare un giro a 360° nel mondo della gastronomia e rendersi subito conto della sua complessità e ricchezza. Anche “Che mondo sarebbe“, fresco di stampa e presentato a Milano presso la libreria Feltrinelli di Piazza Duomo lo scorso mercoledì 24 gennaio, propone uno sguardo originale, profondo e interdisciplinare alla materia.
Chiediamo direttamente a Cinzia di accompagnarci dentro il suo nuovo libro…
Qual è stata la scintilla che ti ha spinto a scrivere di cibo e pubblicità?
Gli spot in tv hanno sempre catturato la mia attenzione. Appartengo alla generazione che “andava a letto dopo Carosello”: guardare la pubblicità in tv era l’ultimo momento di condivisione e divertimento, prima di andare a dormire, e quindi era preziosissimo. Però nella stessa epoca c’erano anche degli eccellenti giornali per bambini e ragazzi, come il Corriere dei Piccoli e altri che avevano vere e proprie rubriche in cui con giochi e scherzi da bambini le pubblicità venivano prese in giro, per aiutare i ragazzi a leggere in modo critico quello che in tv veniva servito come oro colato. Negli anni ho continuato a seguire questo filone e a osservare questo tipo di comunicazione, sempre con grande interesse e divertimento, considerandolo di fatto un genere. Ne sono convinta e lo ribadisco nel libro.
Ripensando agli ultimi 50-60 anni, che impatto credi abbia avuto e continui ad avere la pubblicità sulle nostre abitudini alimentari?
L’impatto l’ha avuto l’industria alimentare, che per mezzo della pubblicità ci parla. E non è sempre stato un impatto negativo. Se alcune abitudini sane non si sono perse (per esempio mangiare minestroni in una fase in cui nessuno vuole più cucinare), è anche grazie ai prodotti di quarta gamma. Quello che analizzo in questo libro però è l’impatto che la pubblicità ha sulla visione che abbiamo di noi stessi e sul modo in cui ci adeguiamo alle esigenze della cultura del consumismo.
In cosa si differenzia la pubblicità del cibo da quella di altre categorie merceologiche?
Appare sempre più evidente che il settore della comunicazione commerciale relativa al cibo è – rispetto a quella relativa ad altri ambiti dei consumi – più spento, convenzionale, banale e poco stimolante. Probabilmente è anche una comunicazione più difficile, certamente è maggiore la sfida. Facile fare i fenomeni se devi pubblicizzare Chanel n. 5; meno immediato con i pisellini primavera. Ma resta il fatto che la pubblicità del cibo offre modelli sociali e relazionali retrogradi e superati, che nella realtà in tanti hanno abbandonato. E questo ha, tra l’altro, uno straordinario effetto comico.
È una peculiarità tutta italiana, questa, o credi che abbia a che fare con la dimensione specifica della comunicazione sul cibo tout court?
Non conosco altrettanto bene la comunicazione commerciale del cibo di altri paesi. Inoltre penso ci siano enormi differenze tra le diverse aree del mondo e quindi il discorso si allargherebbe tantissimo. Differenze che stanno anche nel tipo di prodotti che vengono commercializzati. Ricordiamoci che sono le industrie che ci parlano e le industrie non sono tutte uguali perché le norme che regolamentano il loro operare possono essere molto diverse nei diversi continenti. Tuttavia un po’ credo che sia proprio la quotidianità, il fatto che si sta promuovendo un gesto naturale e obbligato come il cibarsi, a creare i presupposti per una comunicazione meno stimolante, come se si ponesse obiettivi a brevissimo termine ed evitasse di imbarcarsi in questioni culturalmente più significative. Se con la mia comunicazione ti sfido su terreni socialmente o politicamente meno battuti, corro il rischio che tu rifiuti il prodotto e la concorrenza è tale e tanta che difficilmente le aziende correranno questo rischio.
C’è una pubblicità del cibo che ha colpito in modo particolare il tuo immaginario in passato? Perché lo ha fatto?
Non posso negare che la voglia di scrivere e di creare una narrazione ulteriore è iniziata con le crisi notturne dell’uomo Conad e la successiva saga. Era talmente surreale lui, e talmente inaccettabile la reazione della moglie che non potevo smettere di pensare a quei copy e alle riunioni in cui veniva stabilita la sceneggiatura di quelle vicende. Auguro loro che siano state divertenti come io le immagino. In generale, dal punto di vista tecnico sicuramente nel tempo ci sono stati alcuni straordinari colpi di genio, sia nella scelta dei claim, alcuni dei quali sono poi entrati nel nostro lessico quotidiano, da “come natura crea Cirio Conserva” a “su De Rica non si può” a “dove c’è Barilla c’è casa”; ma se devo scegliere una pubblicità lontana nel tempo, forse tra quelle che ho amato di più c’è la serie curata da Woody Allen per Coop, e in particolare lo spot con i marziani che ragionavano con il terrestre rapito su dove andare a far la spesa.
Che mondo sarebbe. Pubblicità del cibo e modelli sociali
Cinzia Scaffidi
Collana: asSaggi
Confezione: brossura con bandelle
Formato: 13×21 cm
Pagine: 192
Prezzo al pubblico: 14,50 €
Prezzo online: 12,33 €
Trovi i libri di Cinzia Scaffidi sullo store Slow Food Editore.
Trovi qui un breve estratto del libro.