“Forse i grandi antropologi sono i grandi poeti della modernità, fondatori prima ancora che scopritori di città morte e civiltà svanite, ma fondatori in quanto scopritori e scopritori in quanto fondatori di un valore perenne che si rifrange, trasformandosi ma non perdendosi, nel fluire del tempo. Dopo aver letto queste pagine, quei paesaggi abbandonati e il senso stesso del paesaggio abbandonato non si dimenticano più”.
Sono parole di Claudio Magris che accompagnano la prefazione all’ultima fatica di Vito Teti, antropologo vero, che in “Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni” fonde mirabilmente storia ed archeologia in un saggio che al tempo stesso è poesia: la poesia del passato e del presente.
Un libro che parla della Calabria, ma racconta il cambiamento dell’Italia intera muovendosi tra le “rovine”, le case diroccate o dimenticate di mille piccoli luoghi in cui “non c’è più nessuno ad abitarle o quasi nessuno. Ma ciò non significa che non vi accada niente o vi sia poco da raccontare“.
E’ l’Italia dello spopolamento e delle ghost town, ossia il 42,1 % del totale dei comuni del nostro Paese e il 10,4 % della popolazione totale, con un primato per il Piemonte che ospita 539 comuni disagiati seguito da Campania (370), Calabria (354) e Sicilia (301).
Teti vi si aggira indagando tra le rovine e le reliquie, utilizzando la visione dell’uomo sensibile che sa di non dover nascondere – tra le ombre – melanconie, abbandoni e nostalgie e, anzi, sa di doverle trattare come merce rara per decriptare il passato. Un passato su cui non indulge perchè “può essere riscattato come un mondo sommerso di potenzialità diverse, non compiute, ma suscettibili di future realizzazioni“.
Un esercizio che l’odierno homo oeconomicus pare avere perduto, come afflitto dalla sindrome del cuculo: “distruggere i mondi quando sono in vita per poi piangerli e rimpiangerli quando sono ormai defunti o moribondi”.
L’abbandono ha molte facce e le facce hanno diversi pigmenti. Le migrazioni di ieri e di oggi restano a ricordarci le fatiche degli uomini sradicati dalle loro origini e lo spaesamento che tocca tutti i sensi, i gesti, i riti, le emozioni di chi “deve” trovare il proprio spazio esistenziale in un “altrove” di cui non ha memoria e con il perenne anelito al ritorno, in luoghi dove troverà solo rovine, segno della precarietà umana. Rovine del passato, ben diverse dalle macerie del presente.
Rovine intese non nel senso del linguaggio popolare, che le riferisce a una disgrazia personale e non ai resti di abitati del passato.
Le rovine sono un “legame fisico e affettivo con il mondo perduto dei padri, di cui si commemora la bellezza e la fatica“, scrive Teti. E i ruderi piangono, ma sono il collegamento tra i rimasti e i partiti. Le rovine sono i segni della storia, sono memoria ma anche vita, elementi di un diverso sentimento dei luoghi.
Come nel caso dei terremoti, abituale litania nella storia italiana e delle terre marginali. Teti vi si addentra tra le ombre, a Beirut come a L’Aquila, ad Amatrice come in Umbria, alla ricerca di quel “senso dei luoghi” che le new town hanno creduto di poter annichilire. “La ricostruzione e la prevenzione avrebbero bisogno di una nuova consapevolezza e di nuove politiche per la montagna e per le aree interne, che non sia quella delle grandi opere che isolano, distruggono, cancellano. Forse la scommessa, oggi, è investire sulla memoria, sulla propria storia, su una nuova idea dell’abitare e dell’esserci nei luoghi. Un’altra idea di sviluppo“.
Teti indaga una “archeologia della melanconia“, legame tra uomo e luogo e malattia del luogo. Ma anche “una sorta di strategia di sopravvivenza, una forma di elaborazione di un lutto prolungato, la risposta alle catastrofi”.
Perchè le rovine generano melanconia ma spesso “le persone melanconiche cercano e ammirano, talora inventano rovine“.
La melanconia si accompagna alla nostalgia, che può essere considerata “spinta, energia, guida, strategia per affermare una diversa esistenza, per riaffermare la presenza di fronte al rischio concreto e radicale dell’assenza, di una lontananza da tutto e da tutti, da se stessi”. Non un ritorno al passato, ma una denuncia delle forme violente di distruzione del passato. Per dirla con Pasolini: una nostalgia sovversiva.
“I luoghi non muoiono. Nemmeno quando le persone se ne sono andate. I luoghi continuano a vivere fino a quando ci sono persone ad essi legate, da essi provenienti, fino a quando qualcuno, magari discendente dalle persone nate nei luoghi, ne avrà ricordo“.
“Restare, allora, non è uno slogan nè un proclama. Si può affermare un’utopia delle piccole cose che richiede pazienza e cura, circospezione e tenacia, attenzione e apertura, senso di responsabilità e discorsi di verità che non ammettono illusioni”.
Oggi vediamo molti giovani avvicinare paesi spaesati e pietre apparentemente dimenticate. Immaginano la vita. Di nuovo.
Qui sta la nostra sfida: dimenticarci le commemorazioni e inventare nuovi albori.
Partendo da quel che resta, che è spazio e non deserto …
Recensione di Alessandro Mortarino.
Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni.
di Vito Teti. Prefazione di Claudio Magris.
Saggi. Storia e scienze sociali
2017, pp. XII-308
ISBN: 9788868436230
€ 30,00
Vito Teti è professore ordinario di Antropologia culturale dell’Unical, dove ha fondato e dirige il Centro di iniziative e ricerche «Antropologie e Letterature del Mediterraneo».
Tra le sue pubblicazioni: Il senso dei luoghi, Donzelli, 2004 (III ed. 2014); Storia del peperoncino, Donzelli, 2007; La melanconia del vampiro, Manifestolibri, 2007; La razza maledetta, Manifestolibri, 2011; Maledetto Sud, Einaudi, 2013; Pietre di pane, Quodlibet, 2014; Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale, Rubbettino, 2015; Fine pasto. Il cibo che verrà, Einaudi, 2015. Ha curato inoltre, con Francesco Loriggio, A filo doppio. Un’antologia di scritture calabro-canadesi, Donzelli, 2017.
Molto interessante. Non vedo l’ora di acquistarlo per leggerlo. Anche in Sicilia il fenomeno è molto diffuso, soprattutto nei borghi costruiti nel ventennio FascisTa e nei borghi della riforma agraria degli anni 50 del secolo scorso. Carlo Foderà (Trapani)