di Marcello Seclì, Presidente Italia Nostra – Sezione Sud Salento.
Finalmente, dopo qualche decennio di ritardo la Regione Puglia ha rimediato ad un problema che attendeva di essere risolto senza “condizionamenti” cioè quello dell’aggiornamento delle tariffe sui materiali di cava. Era questa infatti una situazione a dir poco scandalosa per la quale la lobbies dei cavatori ha trovato per molti anni la “tolleranza” negli ambienti regionali e per cui le tariffe sui materiali estratti altro non erano se non delle elemosine.
Ci auguriamo che, con l’approvazione della Delibera n. 589 del 5 aprile u.s., la Giunta regionale Pugliese abbia voluto avviare un percorso che, oltre all’aspetto tariffario, possa riguardare anche quello autorizzativo concernente l’apertura e l’allargamento delle cave.
Per quanto la categoria possa sbraitare, resta il fatto che il territorio pugliese (quello salentino in particolare) non può continuare a tollerare come se nulla fosse l’imperversare di una attività che non trova più alcuna ragione di esistere in quanto il territorio (risorsa sempre più limitata) è stato abbondantemente e oltre l’inverosimile cavato per ricavare i più diversi materiali inerti che nella maggior parte (trasformati e non) vengono esportati. Non è, nè può più essere questa, un’economia che può definirsi sostenibile se è vero come è vero che in Puglia sono attive circa 400 cave di cui oltre cento nel Salento, senza parlare di quelle non più attive che ammontano ad un altro centinaio.
Il Salento è diventato sempre più un territorio lunare; se si guardano le foto satellitari sono rari i comuni in cui non compare un grande buco nel terreno (per non parlare di quelli ricolmi di rifiuti) che – tra l’altro – dovevano essere risanati e messi in sicurezza e che invece sono luoghi spettrali e depredati.
Per questo il territorio non può essere oggetto di assalto come continua ad avvenire in molte parti del Salento con attività che, tra l’altro, risultano insalubri sia nella fase estrattiva sia in quella di trasformazione (cementifici o calcestruzzi); i dati dell’ISPRA riportati nel Rapporto ambientale 2017 (così come quelli degli anni precedenti) ce lo dicono chiaramente: bisogna fermare assolutamente il consumo del suolo e, se l’innalzamento delle tariffe può servire anche a questo (oltre che a ristabilire un giusto rapporto di fiscalità), ben venga il provvedimento della Regione.
D’altronde, essendo il comparto edile in forte contrazione, l’alternativa non è altro che quella di riconvertire uno dei settori più critici della filiera, proprio quello estrattivo, indirizzandolo magari allo sviluppo del settore agricolo, alla riqualificazione ambientale e alla rinaturalizzazione di tutte le cave che attendono da decenni di essere bonificate e messe in sicurezza, non fosse altro per rimediare – se pur parzialmente – alle tante ferite inferte ad un territorio che oramai sta collassando.
Sono proprio i momenti di crisi che possono e devono farci ripensare (a partire dalle Istituzioni) sulle soluzioni da adottare, che non possono assolutamente essere le stesse che ci hanno portato al fallimento; pena, veramente, il tracollo.
E’ quello che si sta avvenendo, ad esempio, in questi tempi ad Alezio in cui gli amministratori, le associazioni, le aziende agricole ed agrituristiche e i cittadini sono mobilitati perché non venga autorizzata l’apertura di una cava di argilla funzionale alla produzione di cemento.
E’ giunto il momento di modificare un modello di sviluppo dei decenni passati che non risponde assolutamente ai parametri della sostenibilità, tanto decantata da tutti (magari dalle stesse aziende estrattive che – strumentalmente – utilizzano il termine “ambiente” nella loro denominazione), ma che di fatto stenta ad essere messo in atto.
In questa direzione il ruolo degli Enti pubblici è fondamentale per indicare la strada per uno sviluppo che –insieme alla tutela delle risorse naturali e del paesaggio – possa garantire la ripresa economica e la qualità della vita.
Bisogna ripristinare l’edilizia preesistente. E puntare su un turismo sostenibile