di Maria Cristina Gibelli.
La sudditanza agli interessi dei proprietari di aree e degli operatori finanziario-immobiliari continua imperterrita. Il quartiere di Città degli Studi è sotto attacco speculativo e a rischio di declino. (m.c.g.)
Il rischio maggiore risiede nelle sedicenti “scelte strategiche” dell’attuale amministrazione (e del governo regionale) a favore del decentramento delle Facoltà Scientifiche della Università Statale nelle aree ex EXPO. Ma anche il principio dell’”indifferenza funzionale”, che presiede alle trasformazioni puntuali del tessuto insediativo, non è da sottovalutare, poiché tende a indebolire la vocazione storica del quartiere a favore di una banale residenzialità. In entrambi leggiamo lo stesso disegno di sudditanza agli interessi dei proprietari di aree e degli operatori finanziario-immobiliari che condiziona le decisioni in materia urbanistica dell’amministrazione locale. Milano si conferma la “mecca del real estate”: anche nelle piccole trasformazioni. (m.c.g.)
Qualche anno fa scrissi per la rivista Meridiana una riflessione sulle vicende urbanistiche milanesi dalla deindustrializzazione degli anni ’70 in poi, dal titolo “Milano: da metropoli fordista a mecca del real estate”[1]. Sottolineavo che, da almeno tre decenni, si stavano realizzando, in un contesto di regole sempre più flessibili e adattabili, grandi progetti ad alto contenuto comunicativo e modesto contenuto funzionale, e una complessiva radicale perdita di mixité e crescente gentrificazione della città consolidata. Milano, così facendo, stava esaurendo o compromettendo le sue preziosissime risorse territoriali e di patrimonio costruito più centrali rese disponibili dalla deindustrializzazione (quelle che i francesi avevano opportunamente denominato jachères, a sottolinearne la irriproducibilità e quindi la necessità di gestirle attraverso progetti di rigenerazione con Società di Economia Mista di esclusiva regia pubblica e sottoposte a un formalizzato controllo di conformità da parte dell’amministrazione locale). Milano, sposando un modello neo-liberista, con una continuità indifferente al mutare delle maggioranze politiche che hanno amministrato la città, trascurava il tema degli urban commons (esternalità positive, beni pubblici, common-pool resources); di fatto, poneva una pesante ipoteca anche sulle sue prospettive future di sviluppo economico e di vivibilità.
Oggi è sottoposto alla minaccia della speculazione finanziario-immobiliare il quartiere di Città Studi, storicamente vocato alla funzione universitaria: con l’inaccettabile progetto di decentramento / ‘deportazione’ di tutte le Facoltà Scientifiche dell’Università Statale nell’area ex EXPO.
Ma non è di questo progetto indesiderabile che voglio trattare in questa breve nota (anche se eddyburg continuerà a seguirne con attenzione critica le vicende: perché se venisse realizzato, non abbiamo difficoltà ad affermare che si potrebbe tradurre – citando il compianto Peter Hall – in un “great planning disaster”).
La mia riflessione si concentra invece su un tema di apparente minore impatto: su un intervento puntuale di sostituzione edilizia che sembra però configurarsi come un caso di scuola dell’urbanistica neoliberista milanese. Il principio che lo presiede è l’indifferenza funzionale: inventato dalla giunta Moratti di centro-destra, ma legittimato dal Piano di Governo del Territorio approvato dalla giunta Pisapia ed ereditato senza ripensamento alcuno dall’attuale amministrazione. Il caso è interessante perché riguarda un intervento di sostituzione funzionale nel cuore di Città Studi, promosso da un’imprenditoria dinamica e ‘moderna’; e perché sembra annunciare quanto potrebbe accadere in futuro nella rigenerazione del quartiere, una volta rimosso l’ingombro della Facoltà Scientifiche e dei grandi ospedali specializzati (Istituto dei Tumori e Besta): e cioè la messa a disposizione di grandi risorse territoriali all’interno del tessuto consolidato della città abbandonate al gioco del libero mercato quanto alle funzioni da ospitare.
Il progetto intende sostituire, con un banale intervento di edilizia residenziale, l’edificio dell’Istituto Rizzoli per l’insegnamento delle Arti Grafiche, fondato nel 1951 da Angelo Rizzoli per la formazione professionale di tecnici per il settore editoriale. Si tratta di un edificio di chiara impronta razionalista che, una volta trasferita altrove la sede della scuola, avrebbe meritato, a parere di molti, un intervento conservativo; certamente non la demolizione[2]. Come ben si sa, la rigenerazione ‘alla milanese’ (che ormai è imitata in tutto il paese) ha per prima privilegiato, con i Piani di Governo del Territorio, il binomio demolizione/ricostruzione rafforzato attraverso cospicui premi volumetrici. In genere, con contropartite assai modeste, quando non inesistenti, per la collettività.
Il progetto attuale per l’edificio Rizzoli, il solito immobile destinato a edilizia residenziale di ‘pregio’, sostituisce un inqualificabile progetto precedente approvato durante il governo Moratti (assessore Masseroli) che aveva suscitato la mobilitazione indignata dei residenti nelle vie finitime caratterizzate da un tessuto di edifici bassi sul modello “città giardino” intercalati da dipartimenti universitari. Si trattava allora di un vero e proprio “ecomostro”, come fu immediatamente definito dai residenti: un palazzo, alto 65 metri, con 600 unità abitative fittiziamente destinate a studentato, quattro piani di parcheggi interrati per 170 auto (rampa d’accesso in via Giuseppe Colombo) e vari negozi. Un progetto che aveva comunque non solo ottenuto il via libera dell’amministrazione comunale, ma anche il sostegno entusiasta dell’allora Rettore del Politecnico. Fallita la società proprietaria dell’edificio e rivenduta la proprietà alla società Armoniae srl, il nuovo progetto sembra procedere in maniera speditiva verso l’approvazione, malgrado le osservazioni critiche e le richieste di riduzione della volumetria avanzate dai residenti.
Un aspetto, abbastanza inusuale nei progetti di trasformazione milanesi, sembra costituire il punto di forza della proposta avanzata dai nuovi proprietari (attualmente rappresentati dal consigliere Mirko Paletti): l’impegno della società a procedere immediatamente al pagamento degli oneri richiesti dal Comune, fra cui rientrerà anche la realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria a scomputo per la riqualificazione del Centro Balneare Romano di via Ponzio: in particolare della vasca della piscina antistante il Politecnico di Milano, ormai totalmente degradata, che costituisce una risorsa importante, e sottoutilizzata, per gli abitanti di Città Studi.
È un aspetto indubbiamente positivo: a Milano, il pagamento degli oneri o la realizzazione delle opere a scomputo arrivano sempre con grandissimo ritardo rispetto alla realizzazione delle volumetrie destinate al mercato (bastino, a puro titolo di esempio negativo, i grandi progetti di trasformazione di Porta Nuova e City Life; per non parlare dei veri e propri scandali come il progetto di Porta Vittoria).
In questo caso, sembrerebbe che il cronoprogramma delle opere si sia finalmente invertito, come avviene in tutte le grandi città civili; ma, inutile sottolinearlo, con significativi vantaggi aggiuntivi per l’operatore. In primo luogo, il cambiamento di destinazione d’uso (cosa che non avviene invece nelle grandi città civili dove desterebbe scalpore il principio dell’indifferenza funzionale); e inoltre, incrementi volumetrici rilevanti ottenuti attraverso la possibilità di trasformare la superficie dell’auditorium sotterraneo del Rizzoli (2.000 mq di slp) in ulteriori appartamenti ai piani alti.
L’Istituto Rizzoli occupava 7.000 mq,: però con due piani sotterranei, e 5 piani fuori terra; il progetto attuale prevede invece la destinazione a parcheggio dell’interrato e del piano terra (che non costituiscono slp), mentre i piani fuori terra diventeranno 10! Ma trasformare gli interrati in ampliamenti generalizzati che, come in questo caso, non sono stati adeguatamente valutati in termini di carico urbanistico e di tutto quello che ne consegue dal punto di vista ambientale, appare totalmente inaccettabile.
Le lettere inviate ufficialmente dal comitato residenti per contestare alcuni aspetti cruciali del progetto e ottenere ascolto non hanno ricevuto sinora alcuna risposta. La cosa non desta stupore, anche se l’indignazione rimane. La voce dei cittadini stenta a trovare dei canali formali di espressione e di attenzione, perché la partecipazione è ingrediente sempre declamato dall’amministrazione milanese, ma, in realtà, sempre ostacolato e marginalizzato.
La prospettiva futura di smantellamento di tutti o gran parte degli edifici delle Facoltà Scientifiche per trovare un qualche destino alle aree ex EXPO, dopo che l’asta era stata disertata dagli operatori privati, incombe minacciosa su questo quartiere storico della città. Come si intenderà operare su Città Studi? Facendo un passo indietro, sulla scorta del parere negativo espresso da molte Facoltà Scientifiche, molti lavoratori dell’università, studenti e residenti del quartiere? Oppure, come ormai appare più probabile, procedendo in un progetto inaccettabile perché indifferente al patrimonio storico architettonico accumulato nel tempo e alla vocazione pubblica di eccellenza di questo quartiere (che richiederebbe invece decisi interventi di potenziamento della vivibilità attraverso servizi di qualità fruibili sia dalla popolazione universitaria che dai residenti)?
Questo grande interrogativo fornisce una ragione in più per continuare a contrastare anche le trasformazioni puntuali quando provochino dissonanza, distruzione del patrimonio architettonico storico e perdita di identità.
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[1] Gibelli M. C. (2016), in Meridiana, n. 85.
[2] Ricordo bene la reazione indignata di Marco Dezzi Bardeschi quando, camminando lungo via Giuseppe Colombo, gli mostrai l’edificio dell’Istituto annunciandone la demolizione!
Tratto da: http://www.eddyburg.it/2018/12/milano-segnali-di-futuro-indesiderabile.html
La solita storia : distruggere il proprio paese è lo sport preferito delle amministrazioni italiane sono aiutate , in questo da un indifferenza generale
L’utilizzo di troppi termini inglesi impoverisce la nostra lingua e non aiuta a rendere gli interventi comprensibili a tutti.