Alcuni chiarimenti sull’iniziativa di trasformare lo schema del disegno di legge sui beni comuni della Commissione Rodotà in una proposta di legge di iniziativa popolare.
di Paolo Maddalena.
L’iniziativa di trasformare lo schema di disegno di legge della Commissione Rodotà, redatta da alcuni studiosi dieci anni fa, in una proposta di legge di iniziativa popolare, impone una analisi critica del testo. Sarebbe assurdo, infatti, che il Popolo presentasse un disegno di legge, senza conoscerne il contenuto. Peraltro è da sottolineare che questo disegno di legge si limita a “controllare” le “privatizzazioni”, mentre oggi è fin troppo evidente che queste ultime devono essere del tutto eliminate e non semplicemente “disciplinate”. Infatti oggi il vero problema è “ricostruire” il “patrimonio pubblico”, cioè la “proprietà pubblica”, che sciagurate leggi incostituzionali hanno dato a privati, i quali sono diventati i veri detentori delle ”fonti di ricchezza nazionale”.
Venendo, comunque, all’analisi del testo e della relativa “Relazione di accompagnamento” (vedi qui) è innanzitutto da ricordare che quest’ultima indica che “una simile iniziativa era stata proposta già nel 2003 da un gruppo di studiosi presso il Ministero dell’economia e delle finanze. L’idea era nata in seguito al lavoro che era stato avviato in quella sede per la costruzione di un conto patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche basato sui criteri della contabilità internazionale. Nello svolgimento di tale compito, e alla luce dei primi processi di valorizzazione e privatizzazione di alcuni gruppi di cespiti pubblici (immobili e crediti), era emersa la necessità di poter contare su un contesto giuridico dei beni che fosse più al passo con i tempi e in grado di definire criteri generali e direttive sulla gestione e sulla eventuale dismissione di beni in eccesso delle funzioni pubbliche, e soprattutto sulla possibilità che tali dismissioni (ed eventuali operazioni di vendita e riaffitto dei beni) fossero realizzate nell’interesse generale della collettività facendo salvo un orizzonte di medio e lungo periodo”.
Al riguardo, la Relazione precisa che sull’argomento ci fu una riunione presso l’Accademia dei Lincei e che “in quella sede un autorevole gruppo di studiosi (giuristi ed economisti), era giunto unanimemente alla conclusione che fosse opportuno proseguire nel lavoro sui beni pubblici tramite due iniziative fra loro strettamente collegate. La prima, una revisione del contesto giuridico dei beni pubblici contenuti nel codice civile attraverso l’istituzione di una apposita Commissione ministeriale. La seconda, il proseguimento del lavoro conoscitivo avviato con il progetto sperimentale del conto patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche per rafforzare il contesto della conoscenza dei beni del patrimonio. Sul primo fronte la proposta è stata accolta dal Ministero della giustizia. I lavori della Commissione sono stati avviati con la prima riunione plenaria che si è tenuta presso il Ministero il 4 luglio 2007”.
I risultati dello studio sui beni facenti parte del patrimonio delle Amministrazioni pubbliche hanno dimostrato fondamentalmente i danni prodotti dalle “dismissioni”. Mentre i lavori della Commissione hanno messo in evidenza la chiara finalità di adeguare il “contesto giuridico” alle esigenze contabilistiche del “conto del patrimonio”.
E’ per questo che la Relazione di accompagnamento allo schema del disegno di legge della Commissione Rodotà dedica uno spazio particolare al tema della proprietà pubblica.
A tale proposito in detta Relazione si legge che “la matrice della moderna dottrina del demanio nasce da una distinzione nell’ambito dei beni (soggettivamente) pubblici, tendente ad individuare alcune categorie di beni da tenersi fuori dall’applicazione del diritto comune perché strettamente destinati ad una funzione di pubblico interesse”. Con ciò la Commissione riconosce che la costituzione della categoria dei beni demaniali poggia “sulla funzione dei beni”, ma poi propone di sopprimere il demanio, ritenendo che esso non tenga conto di tale funzione.
L’art. 1, comma 3, lett. d), abrogativa del demanio, così si esprime: “sostituzione del regime della demanialità e della patrimonialità attraverso l’introduzione di una classificazione dei beni pubblici appartenenti a persone pubbliche, fondate sulla loro natura e sulla loro funzione in attuazione delle norme costituzionali”. Qui emerge una prima contraddizione: si afferma che il demanio tiene fuori del diritto comune i beni “strettamente destinati a una funzione di pubblico interesse” e poi lo si abroga come se non avesse tale funzione.
Questa contraddizione pare approfondirsi nel seguito della relazione, nella quale si legge: “Dal punto di vista dei fondamenti, la riforma si propone di operare un’inversione concettuale rispetto alle tradizioni giuridiche del passato“. Invece del percorso classico che va “dai regimi ai beni”, l’indirizzo della Commissione procede all’inverso, ovvero “dai beni ai regimi”. Ma, come abbiamo visto, “la matrice moderna” del demanio sta proprio nel tener fuori del diritto comune (fuori commercio), taluni beni che soddisfino bisogni di “pubblico interesse”. Dunque, piuttosto che eliminare il demanio, si poteva rafforzare il nesso sul quale insiste il diritto costituzionale, tra appartenenza del bene e vincolo di destinazione, dove per destinazione si deve intendere il rafforzamento del regime democratico e il libero sviluppo della persona umana nel suo contesto ecologico, naturale e sociale.
Quanto ai “beni comuni” è bene leggere direttamente il testo del disegno di legge: “Previsione della categoria dei beni comuni, ossia delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona …. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati, in ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissate dalla legge. Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche, i beni comuni sono gestiti da soggetti pubblici e sono collocati fuori commercio; ne è consentita la concessione nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata, senza possibilità di proroghe” (segue una classificazione di beni tratti dall’elencazione del codice civile dei beni demaniali e dei beni indisponibili).
In questo caso ci troviamo di fronte a un forte arretramento rispetto a quanto disposto dal codice civile a proposito del “regime dei beni demaniali”, perché i beni comuni posti fuori commercio sono di fruizione collettiva e gratuita da parte di tutti, soltanto “se sono gestiti da soggetti pubblici”, se invece si tratta di beni in titolarità privata “la fruizione collettiva deve essere garantita” da questi ultimi.
Insomma, il ruolo delle Comunità nell’uso, nella cura e nella gestione dei beni comuni non è presa in considerazione, riducendo la Comunità a mero fruitore e lo Stato a un apparato burocratico. Da questo punto di vista il demanio dava più garanzie, perché, nella prospettiva dello Stato comunità, esso è da considerarsi come “proprietà collettiva demaniale” aperta alla partecipazione diretta del tanto invocato Popolo. Un esempio sono la persistenza nel nostro ordinamento degli usi collettivi che quasi sempre rientrano, non a caso, nell’area demaniale.
Ciò non ostante, la Relazione di accompagnamento afferma in proposito: “Per tali ragioni, si è ritenuto di prevedere una disciplina particolarmente garantistica di tali beni, idonea a nobilitarli, a rafforzare la tutela, a garantirne in ogni caso la fruizione collettiva, da parte di tutti i consociati, compatibilmente con l’esigenza prioritaria della loro preservazione a vantaggio delle generazioni future. In particolare la possibilità della loro concessione a privati è limitata. La tutela risarcitoria e la tutela ripristinatoria spettano allo Stato. La tutela inibitoria spetta a chiunque possa fruire delle utilità dei beni comuni in quanto titolare del corrispondente diritto soggettivo alla loro fruizione”. Definire la disciplina prevista dal disegno di legge della Commissione, più “garantistica” e “rafforzata” rispetto a quella prevista dal codice civile per i beni demaniali, è davvero un controsenso. La verità è che non andava soppresso il “demanio” e la corrispondente proprietà collettiva demaniale del Popolo, ma andavano soltanto aggiunti ai beni demaniali alcune categorie di beni attualmente inseriti nel “patrimonio indisponibile” dello Stato, come, ad esempio, le “foreste”.
Tornando al testo del disegno di legge, è da ricordare che questo, all’art. 1, comma 3, lett. b) distingue i beni in tre categorie: “beni comuni, beni pubblici, beni privati”, e, allo stesso comma, lett. d) distingue i beni pubblici in altre tre categorie: “beni ad appartenenza pubblica necessaria; beni pubblici sociali; beni pubblici fruttiferi”. Un riordino, come agevolmente si nota, che non presenta nulla di chiaro ai fini della concreta disciplina dei beni pubblici.
Senza fare chiarezza sulle incertezze appena esposte si rischia di predisporre un contesto giuridico troppo permeabile alla tendenza a “dismettere” o a “privatizzare” i beni del Popolo Italiano. E questo è ancora più grave se si considera che la suddetta proposta di legge ha soppresso il concetto di “Stato comunità”, affermato dall’art. 1 della Costituzione, secondo il quale: “L’Italia è una Repubblica (cioè una Comunità) democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al Popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ed ha sostituito ad esso il concetto, proprio dello Statuto Albertino, dello “Stato persona giuridica”. Inoltre, ha soppresso la “proprietà pubblica” prevista dall’art. 42, primo comma, della Costituzione. Proprietà che il Giannini definiva “proprietà collettiva demaniale”. E infine ha soppresso, in violazione dell’art. 3, comma 2, Cost. e dell’art. 118, ultimo comma, Cost. la “partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (così si esprime l’art. 3 Cost.). Tralasciando così proprio il punto centrale sul quale si è svolto il dibattito dottrinale sui beni comuni: quello della gestione di questi beni direttamente da parte dei cittadini, come ha sottolineato la Ostrom.
Così facendo, la Commissione ha facilitato coloro che studiano la compilazione di un Conto patrimoniale alla stregua della contabilità internazionale. Infatti ha rimesso tutto nelle mani della Pubblica Amministrazione e di singoli privati ed ha eliminato la difficoltà di distinguere i beni demaniali della Collettività da quelli appartenenti allo Stato persona.
Alla luce di queste poche e brevi considerazioni sul testo della Commissione Rodotà appare evidente che esso non corrisponde affatto alle attuali esigenze del Popolo Italiano, che sta attraversando una crisi economica senza precedenti. Oggi non serve una legge che si limiti “a controllare” o “contenere” le “dismissioni”, le “privatizzazioni” e le “svendite”, ma una legge che aiuti lo sviluppo economico e aumenti i posti di lavoro, riportando nel “pubblico”, come sopra si diceva, quello che indebitamente è stato ceduto ai “privati”, con la conseguenza dell’arricchimento di pochi e dell’impoverimento di tutti gli altri. Ed è oltremodo evidente che, a questi fini, la cosa più urgente da fare è prevedere una legge che contenga una “interpretazione costituzionalmente orientata” (vedi articoli 41 e 42 della Costituzione) del concetto di “proprietà privata”, quale risulta dall’articolo 832 del codice civile (scritto quando vigeva lo Statuto Albertino), poiché è proprio in base a questo concetto che diventano possibili le “privatizzazioni” e le “delocalizzazioni”, le quali sottraggono al Popolo Italiano tanta parte del “patrimonio pubblico”, che a lui appartiene, come afferma la nostra Costituzione, a titolo di “sovranità”.