di Carlo Alberto Graziani.
In un libro pubblicato nel 2014 Paolo Maddalena scriveva:
«Un’ottima definizione dei beni comuni è stata data dalla Commissione Rodotà (….), la quale ha individuato come beni di uso comune quei “beni essenziali per la sopravvivenza dell’uomo e per lo sviluppo della persona umana, strettamente collegati ai diritti fondamentali”. Si tratta di una definizione che ha come retroterra l’affascinante tesi prospettata dallo stesso Rodotà, il quale ha così precisato il proprio pensiero nell’ultima edizione del suo famoso testo Il terribile diritto: “l’attenzione rivolta ai beni comuni non si risolve tutta nella costruzione di una nuova categoria di beni. L’astrazione proprietaria si scioglie nella concretezza dei bisogni, ai quali viene data evidenza soprattutto collegando i diritti fondamentali ai beni indispensabili per la loro soddisfazione. Ne risulta un cambiamento profondo. Diritti fondamentali, accesso, beni comuni disegnano una trama che ridefinisce il rapporto tra il mondo delle persone e il mondo dei beni”».
E aggiungeva:
«E’ una visione fortemente innovativa, tutta fondata sulla persona e sui “diritti fondamentali della persona”, cui fa da contrappunto la tesi di Ugo Mattei, il quale, nel suo brillante volume Beni comuni. Un manifesto, dà rilievo al valore, costitutivo di diritto, della prassi e, in specie, delle prassi poste da “comunità di lavoratori od utenti”, di cui parla l’art. 43 della Costituzione. Le due prospettive, comunque, convergono nel considerare in un certo senso superata la “logica proprietaria” (e cioè della proprietà privata) e nel ritenere l’uomo cittadino del mondo, portatore di valori e diritti fondamentali, che qualsivoglia ordinamento deve “riconoscere e garantire”».
E così concludeva:
«La tesi è senz’altro da condividere», pur se «non impedisce, a nostro sommesso avviso, di approfondire il problema, anche da un’angolatura diversa, partendo non dall’affermazione dei diritti, quasi una pretesa nei confronti di un potere politico staccato dai cittadini, ma dal concetto stesso di “comunità politica”, cioè di una entità, nello stesso tempo umana e giuridica, che si organizza su un determinato territorio»(1).
Qualche giorno fa, precisamente il 5 gennaio, Maddalena è intervenuto nel suo sito con un articolo intitolato Il carattere contabilistico e burocratico del disegno di legge della commissione Rodotà sui cosiddetti beni comuni (2).
Vi si legge: l’Associazione ‘Attuare la Costituzione’ – di cui egli è fondatore, presidente e maxima pars -, «di fronte all’iniziativa di trasformare in proposta di legge di iniziativa popolare lo schema di disegno di legge della Commissione Rodotà, ha il dovere di far sapere a tutti che lo schema della Commissione Rodotà, come si legge nella relazione della sua presentazione al Senato del 2010, ha la finalità di rendere più agevoli i procedimenti di contabilità relativi alla “svendita” e alla “privatizzazione, nonché alla “vendita e riaffitto” degli immobili pubblici. I beni comuni, in questo schema, sono soltanto “uno specchietto per le allodole” e non viene minimamente sostenuta la loro affermazione e diffusione. Anzi, privatizzando e svendendo, si agisce contro l’espansione di questi beni. Deve inoltre precisarsi che la Commissione Rodotà si è riunita soltanto 11 volte, mentre l’iniziativa di questo schema di disegno di legge è partita dai burocrati del Ministero delle finanze (e probabilmente scritta da questi stessi burocrati)».
I cambiamenti di opinione sono legittimi e sono anche segno di intelligenza se logicamente e correttamente argomentati: pertanto, in considerazione soprattutto del ruolo che Maddalena ha avuto in passato – anche se in questo caso un passaggio così brusco dalla fascinazione al grave dileggio (Rodotà che si fa scrivere il disegno di legge dai burocrati!) può essere interpretato solo in chiave psicologica e suggerirebbe di tener conto della risposta di Virgilio a Dante (“non ragioniam di lor, ma guarda e passa” (3) -, provo a esaminare per punti quella che Maddalena ritiene essere «la spiegazione particolareggiata» di quanto da lui sostenuto.
1. Innanzitutto il fatto che la Commissione Rodotà si sia riunita 11 volte in seduta plenaria (intersecate da 5 riunioni speciali della segreteria scientifica) è prova, per chi conosce la prassi delle commissioni ministeriali, dell’intensità e non certo della scarsità del lavoro svolto. D’altra parte l’affermazione che l’iniziativa del disegno di legge sia “partita dai burocrati del Ministero delle finanze (e probabilmente scritta da questi stessi burocrati)”, a parte la gravità, dimostra solo che chi scrive ignora o, peggio, considera privo di rilevanza il grande lavoro, quantitativo e soprattutto qualitativo, che ha preceduto, accompagnato e seguito quell’iniziativa e che ha coinvolto i maggiori giuristi italiani – ma anche importanti economisti e sociologi – in uno sforzo collettivo di straordinario valore culturale (4).
2. Maddalena gioca mischiando la relazione al disegno di legge presentato al Senato il 24 febbraio 2010 (5) e l’articolato (quello che egli chiama “schema”): in questo gioco equivoco immerge il suo attacco al lavoro della Commissione Rodotà e all’attuale proposta di legge di iniziativa popolare.
Si è già riportato quanto egli scrive all’inizio del suo articolo (lo schema, «come si legge nella relazione della sua presentazione al Senato del 2010, ha la finalità di rendere più agevoli i procedimenti di contabilità relativi alla “svendita” e alla “privatizzazione, nonché alla “vendita e riaffitto” degli immobili pubblici”»). Dopo di che aggiunge: lo schema, «lungi dal voler perseguire un ampliamento della tutela dell’interesse pubblico per la fruizione dei beni comuni, persegue il fine opposto di “privatizzare” e “svendere” i beni che sono in proprietà pubblica del Popolo, e, in genere, i beni di “interesse pubblico”»; e poi precisa: «questa finalità è espressa a chiare lettere nella relazione di accompagnamento alla presentazione al Senato di questo disegno».
Di qui la domanda: è l’articolato o la relazione a utilizzare questa terminologia mercantile?
La domanda si ripropone quando Maddalena, dopo aver dato la sua interpretazione della vicenda che ha portato al disegno di legge, scrive – «Una simile iniziativa era stata proposta già nel 2003 da un gruppo di studiosi presso il Ministero dell’economia e delle finanze (6) . L’idea era nata in seguito al lavoro che era stato avviato in quella sede per la costruzione di un “conto patrimoniale” delle amministrazioni pubbliche basato sui criteri della “contabilità internazionale”. Nello svolgimento di tale compito, e alla luce dei primi processi di valorizzazione e “privatizzazione” di alcuni gruppi di cespiti pubblici (immobili e crediti), era emersa la necessità di poter contare su un contesto giuridico dei beni che fosse al passo con i tempi e in grado di definire criteri generali e direttive sulla gestione e sulla eventuale “dismissione” dei beni in eccesso delle funzioni pubbliche, e soprattutto sulla possibilità che tali “dismissioni” (ed eventuali operazioni di “vendita e riaffitto” dei beni) fossero realizzate nell’interesse generale della collettività facendo salvo un orizzonte di medio e lungo periodo» -, trae le sue conclusioni: «Basta pensare che il fine del disegno è quello della “costruzione di un conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche basato sui criteri della contabilità internazionale”; che nel passo citato i concetti sono quelli della “privatizzazione” di alcuni gruppi di cespiti pubblici; che la parola “dismissioni” è usata due volte; e che si parla di “operazioni di vendita e riaffitto” (considerato che l’Amministrazione ha l’abitudine di vendere gli immobili pubblici, per poi riaffittarli a cifre stratosferiche), per rendersi conto quanto è errato il convincimento secondo il quale questo disegno di legge serve a realizzare la migliore fruizione dei “beni comuni” e quanto sia sbagliato ripresentare al Parlamento questo schema di legge, conferendogli la veste di una proposta di legge di iniziativa popolare».
3. Due sono gli equivoci attorno ai quali ruotano le affermazioni di Maddalena e che l’interrogativo rende palesi. Riproponiamo tale interrogativo completandolo: la finalità di costruire il conto patrimoniale e di rendere più agevoli i procedimenti di contabilità relativi alla “svendita” e alla “privatizzazione” è prevista dall’articolato o dalla relazione, considerando che solo il primo ha valore normativo mentre il secondo può unicamente orientare l’interprete in caso di incertezza?
Diciamo subito che l’articolato non fa alcun riferimento né esplicito né implicito al conto patrimoniale e ai concetti di privatizzazione, dismissione, operazioni di alienazione e riaffitto e in generale a finalità di tipo contabile o burocratico. Sull’alienazione prevede che la circolazione dei beni pubblici sociali sia ammessa “salvo il vincolo reale di destinazione” e che i beni pubblici fruttiferi possano essere alienati “solo quando siano dimostrati il venir meno della necessità dell’utilizzo pubblico dello specifico bene e l’impossibilità di continuarne il godimento in proprietà con criteri economici”. In generale sulle utilizzazioni di beni pubblici da parte di soggetti privati prevede che esse debbano comportare il pagamento di un corrispettivo rigorosamente proporzionale ai vantaggi che gli utilizzatori possono trarre.
In realtà l’articolato si muove su un piano ben diverso. Occorre preliminarmente tener conto che si tratta di un disegno di legge che delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per modificare il libro III del codice civile al fine di riformare il diritto della proprietà e dei beni sulla base di alcuni criteri direttivi generali. Gli obiettivi fondamentali sono i seguenti:
– introdurre questa classificazione dei beni: a) beni comuni (es. acqua, aria, parchi, foreste zone montane alte, lidi fauna e flora, beni archeologici, culturali, ambientali, zone paesaggistiche tutelate), b) beni pubblici, c) beni privati);
– disciplinare i beni comuni, dei quali vengono offerte la definizione e un’indicazione tipologica esemplificativa;
– sostituire, per quanto riguarda i beni pubblici, la tradizionale distinzione del codice civile tra beni demaniali e patrimoniali non più adeguata ai tempi con una nuova classificazione “fondata sulla loro natura e sulla loro funzione in attuazione delle norme costituzionali” e così articolata: a) beni ad appartenenza pubblica necessaria (es. strade, ferrovie, spiagge, rade, acquedotti, frequenze, opere destinate alla difesa), b) beni pubblici sociali (es. ospedali, scuole, asili, edilizia residenziale pubblica, reti locali di pubblico servizio), c) beni pubblici fruttiferi (es. partecipazioni dello Stato, immobili, crediti fiscali e altri crediti, concessioni);
– definire i parametri per la gestione e la valorizzazione di ogni tipo di bene pubblico (non perciò dei beni comuni).
Se questi sono gli obiettivi dell’articolato ci si deve allora chiedere se una qualche “finalità contabilistica e burocratica”, come dice Maddalena, emerga dalla relazione. Ed è qui che si delinea il secondo equivoco che è particolarmente grave.
E’ vero che la relazione menziona il conto patrimoniale e contiene termini che per brevità possiamo definire mercantili, ma lo fa per escludere sia l’uno che gli altri dall’orizzonte dell’attuale disegno di legge. Leggiamo infatti: «In quella sede (7) un autorevole gruppo di studiosi (giuristi ed economisti) era giunto unanimemente alla conclusione che fosse opportuno proseguire nel lavoro sui beni pubblici tramite due iniziative fra loro sicuramente collegate. La prima, una revisione del contesto giuridico dei beni pubblici contenuti nel codice civile attraverso l’istituzione di una apposita Commissione ministeriale. La seconda, il proseguimento del lavoro conoscitivo avviato con il progetto sperimentale del conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche per rafforzare il contesto della conoscenza dei beni del patrimonio. Sul primo fronte la proposta è stata accolta dal Ministro della giustizia». E’ stata infatti costituita la Commissione Rodotà.
Dunque se una “finalità contabilistica e burocratica” si vuole individuare bisogna riferirla non già ai lavori della Commissione Rodotà e al suo prodotto, ma al progetto sperimentale del conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche.
3. Nonostante ciò Maddalena insiste: «Che si tratti di una finalità contabilistica e burocratica e non di sistemazione giuridica volta alla migliore gestione e fruizione dei “beni pubblici” emerge poi dalle singole disposizioni, le quali appaiono in palese contrasto con quanto dispongono la nostra Costituzione e i principi generali del nostro ordinamento giuridico».
Ma quali siano queste disposizioni egli non dice: «Un esame particolareggiato delle singole norme, al fine di dimostrarne la illegittimità e la incostituzionalità, non è possibile, poiché sono tali e tante le contraddizioni e gli errori da renderne estremamente delicata e farraginosa la loro confutazione». Afferma invece di voler «segnalare soltanto alcuni errori macroscopici, i quali sottendono l’intero tessuto normativo e rendono chiaro, di primo acchito, che si tratta di un testo che non ha nulla a che vedere con la tutela e la corretta gestione dei beni comuni», ma non si rende conto che con queste parole introduce la categoria dell’ “errore sottinteso” che è un inedito nella letteratura giuridica e che dà luogo a un kafkiano processo alle intenzioni.
Questi gli “errori sottintesi”: lo Stato sarebbe considerato come persona giuridica pubblica e non come comunità politica né come Repubblica democratica fondata sul lavoro nella quale la sovranità appartiene al popolo; l’abolizione del demanio pubblico diventerebbe la soppressione di un organo della pubblica amministrazione e non di un organo dello Stato comunità (ma il demanio consiste in beni e perciò non è organo: i beni non possono essere soppressi, ma possono essere oggetto di diversa classificazione); i beni comuni non potrebbero essere tutelati in via giurisdizionale dai privati, ma solo dallo Stato (qui Maddalena – oltre ad affermare erroneamente la mancata citazione dell’art. 42 Cost. da parte del disegno di legge – confonde i beni comuni con i beni ad appartenenza pubblica necessaria); verrebbe eliminata ogni forma di partecipazione popolare alla gestione dei beni comuni per il semplice fatto che il disegno su questo punto tace.
4. Si tratta di affermazioni che non richiedono commenti. Forse – è questa invece la conclusione – sarebbe stato meglio seguire l’indicazione di Virgilio.
NOTE:
1. P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, con introduzione di S. Settis, Donzelli, 2014, p. 15 ss. Questi i testi citati: S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, terza ed., Il Mulino, 2013, parte V, Verso i beni comuni, pp. 459-498 (il passo riportato è a p. 464); U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, 2011.
2. http://www.attuarelacostituzione.it
3. Divina Commedia, Inferno, libro III, 51.
4. Mi limito ad alcuni significativi esempi di questo sforzo collettivo e interdisciplinare: Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, a cura di U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, Il Mulino, 2007 (questo volume è frutto della Giornata di studio svoltasi pesso l’Accademia dei Lincei il 6 giugno 2006 su “Gestione del patrimonio pubblico: proprietà privata e proprietà pubblica”); I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile, Atti del convegno del 22 aprile 2008, a cura di U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, Accademia nazionale dei Lincei, 2010; Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, Tempi di beni comuni. Studi multidisciplinari, Ediesse 2013.
A questi volumi occorre aggiungere soprattutto S. Rodotà, Il terribile diritto cit., parte V, Verso i beni comuni, pp. 459-498: queste pagine sono fondamentali per capire non solo il pensiero di Rodotà sui beni comuni, ma anche la portata del disegno di legge della Commissione da lui presieduta.
5. Il disegno di legge è stato presentato anche nella legislatura successiva il 9 aprile 2013 sempre al Senato (sempre primo firmatario il sen. Casson) con una relazione che ripropone sostanzialmente la precedente: per nessuno dei due disegni, però, è iniziato il dibattito parlamentare.
6. Su tale iniziativa v. E. Reviglio, Il Conto patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche, in Invertire la rotta, cit., p. 239 ss, e il “memorandum” Per la riforma del regime giuridico dei beni pubblici, ivi, p. 367 ss.
7. Il riferimento è alla Giornata di studio svoltasi il 6 giugno 2006 all’Accademia dei Lincei: v. supra, nota 4.