di Dante Schiavon.
In Veneto tre vicende sono alla ribalta della cronaca di questi mesi: la vendita a privati di Villa Emo, la “congestione viaria” dei comuni interessati dal passaggio della SPV (Superstrada Pedemontana Veneta), la “congestione urbanistica” determinata dall’applicazione del Piano Casa regionale nel T.U.C. (si scrive Tessuto Urbano Consolidato e si legge Tessuto Urbano da Cementificare). Chi vuole opporsi ad un epilogo funesto di queste tre paradossali situazioni, in nome della tutela ambientale e a salvaguardia del bene comune, prova un gigantesco senso di frustrazione e di impotenza. La ragione principale della frustrazione che provano gli “idioti ambientalisti” (quelli che si ostinano a sognare un Veneto diverso) è la mancanza di una reale forza di opposizione, capace di mobilitare migliaia di veneti e le loro coscienze su quello che sta diventando il Veneto di Zaia.
E questa forza di opposizione non si materializza perché quasi tutti gli attuali amministratori della cosa pubblica di ogni colore politico stanno dentro, mani e piedi, nella “mono-cultura” dello “Zaia-pensiero”: sviluppo = consumo di risorse naturali, sviluppo = nuove infrastrutture, sviluppo = crescita infinita. Per scardinare in Veneto il meccanismo devastante di tale “mono-cultura sviluppista”(ma a spese della natura) bisogna che le opposizioni escano dal palazzo e propongano ai veneti un modello alternativo di sviluppo, liberandosi dei lacci dell’opportunismo e della rassegnazione.
Anche le recenti vicende di Villa Emo, della “congestione infrastrutturale” della SPV e della “congestione edilizia” nel “tessuto urbano consolidato” evidenziano l’inconsapevole sussidiarietà di una opposizione in Regione che svolge il compitino istituzionale in modo autoreferenziale, monotono, salottiero, attraverso il rituale scontato di votazioni, comunicati stampa, convegni, tavole rotonde in un gioco delle parti che forse gratificherà chi ne è attore, ma che lascia fuori dal palazzo la realtà ambientale e sociale del Veneto, soggiogata e manipolata dalla propaganda leghista.
Così, se è giusto rivendicare la proprietà e la fruizione pubblica di Villa Emo, non meno importante resta la tutela del contesto urbanistico, territoriale e paesaggistico su cui si collocano, non solo Villa Emo, ma tutte le Ville Palladiane dell’area pedemontana veneta.
L’area pedemontana, con il consenso di tutto il quadro politico regionale, è stata privata di 800 ettari di “suolo verde”, da sempre cornice ed “elemento estetico pulsante” della bellezza di tutte le ville palladiane dell’area devastata dalla SPV. Il prof. Tiziano Tempesta dell’Università di Padova in uno studio sul legame delle ville palladiane con la natura e la civiltà veneta contadina, ci ricorda come nel pensiero di Andrea Palladio esse erano fortemente integrate nel paesaggio circostante. In tale studio è emerso che in più della metà delle ville palladiane in Regione la dispersione insediativa, iniziata negli anni Sessanta e proseguita fino ai giorni nostri, ha irrimediabilmente degradato il paesaggio in cui esse originariamente si inserivano. Quando si dice: vedere il dito e non la luna.
Altro stupore e altra incredulità fatalista si registrano sulle ricadute affioranti nel territorio dall’applicazione del Piano Casa e dalla costruzione della SPV.
Ma di cosa ci si stupisce? La Regione e i comuni, amministrati in disprezzo del “suolo” in modo bipartisan, stanno applicando la legge regionale nr.14/2017 che rappresenta il modello “propagandistico e affaristico” con cui si vogliono affrontare le emergenze ambientali in Veneto.
Il titolo della legge recante la parola “contenimento” al posto delle parole “arresto del consumo di suolo” è abbondantemente indicativo della mancanza di rigore di questa “fake law”, che fa della “deroga” la trave portante di una “legge ossimoro”, celebrata impropriamente da media compiacenti ed esponenti politici distratti di ogni colore politico. La “congestione edilizia” nel Tessuto Urbano Consolidato ne è la logica conseguenza, come la “congestione urbanistica” per le opere complementari della SPV è la logica conseguenza della “mono-cultura” per cui sviluppo = consumo di risorse non rinnovabili come il suolo, sviluppo = nuove infrastrutture e nuove edificazioni. Per fermare lo sterminio di alberi, prati e spazi verdi nelle nostre città e nei nostri paesi c’è bisogno di un forte e diffuso movimento ambientalista in questa Regione che proponga un modello alternativo di Veneto, sostituendo la parola “funzionalità”, cara ai ladri di suolo 4.0 di ultima generazione, con le parole “adattamento funzionale”, per una ragione semplicissima: a dicembre 2018 in Italia ci sono già quasi 300.000 case in costruzione invendute, 7.000.000 di immobili in disuso, 700.000 capannoni dismessi, 500.000 negozi chiusi.
Con questi dati, certificati, c’e chi ha ancora il coraggio di parlare di “cemento responsabile” o di fare una “fake law” sul suolo. Quest’ultima “legge fuffa” prevede che la perdita irreversibile di suolo non venga considerata tale se avviene all’interno del Tessuto Urbano Consolidato o se avviene per la costruzione di nuove e dannose infrastrutture (anche se le infrastrutture concorrono per più del 40% alla perdita irreversibile di suolo). Non possiamo continuare a tollerare lo “snaturamento del suolo” e lo “snaturamento delle stesse parole” con cui si sparano nei media slogan propagandistici. Al posto della “funzionalità” va applicato con rigore, creatività e partecipazione il criterio “dell’adattamento funzionale” del “costruito”.
È qui, cari urbanisti, architetti, geometri che dovete dar prova del vostro talento. Nei nostri paesi le bacheche Comunali si riempiono di epigrafi di persone anziane e alla collettività resta un enorme patrimonio immobiliare vetusto da recuperare, completamente dimenticato, ignorato. Si preferisce, con la complicità di urbanisti compiacenti, legiferare in modo da confondere l’interlocutore: far seguire a pagine di principi stra-condivisibili (l’esercizio di propaganda leghista) una serie incredibile, nel numero e nella tipologia, di eccezioni, deroghe, sanatorie, accompagnate da una terminologia ubriacante che fa apparire tecnicamente semplice e minimale un problema ecologicamente complesso.
Il termine che sta legittimando lo sterminio del poco verde delle nostre città è “Tessuto Urbano Consolidato”. In una Regione che viene presa ad esempio per spiegare cos’e lo “sprawl urbano” si cerca di insinuare l’idea farlocca che ci sia un “ambito urbanizzato” e un “fuori non urbanizzato”.
“Densificare” è un’altra parola funesta: dopo aver provocato in modo irreversibile una dispersione insediativa fra le più massiccie d’Europa, ora l’ordine è di densificare quel poco verde rimasto. Invece per “mitigazione” si finisce per intendere, paradossalmente, le complanari e le arterie stradali chieste per “mitigare” gli effetti di congestione urbanistica determinati dalla costruzione della SPV. E non è uno scherzo: si chiedono strade per mitigare l’effetto di altre strade. Demenza pura. Ben che vada, per qualcuno potrebbe bastare la piantumazione di qualche alberello qua e là per mitigare gli effetti della impermeabilizzazione di 800 ettari di suolo fertile e la sua incidenza sull’inquinamento e sui cambiamenti climatici.
Altro stravolgimento semantico è l’uso del termine “rinaturalizzazione” come se un terreno già privato della sua fertilità lo si possa miracolosamente rinaturalizzare, ben sapendo che 500 anni è il tempo minimo necessario alla formazione di uno spessore di 2,5 cm. di suolo fertile. L’apice di questa incivile e demente cultura antropocentrica l’ho registrato leggendo un cartello lungo la strada Alemagna nel tratto della frana di Acquabona. Il cartello spiegava che le opere di difesa idrogeologica non erano per il territorio, il suolo, il versante della montagna, ma erano a difesa della “sede stradale”, quando la miglior difesa della sede stradale è e rimarrà sempre l’arresto del processo infinito di artificializzazione del suolo veneto.
Si continua a giocare con le parole e la vita delle persone. Bisogna difendere la terra su cui camminiamo perché solo così possiamo difendere la salute, la qualità della vita, la stesa economia di un territorio.
Il consumo di suolo genera costi “ambientali”, “sociali” ed “economici” rilevanti e più volte inutilmente denunciati alla politica, indifferente e sempre presa in altre questioni. “Adattiamo funzionalmente” spazi già artificializzati in disuso. Usiamo “zone industriali” semi abbandonate per costruire nuove stazioni elettriche, magari rinunciando all’accentramento in un solo polo di una stazione elettrica che occupa 80.000 metri quadri di suolo agricolo. Lo stesso discorso vale per le “new entries” proposte dai “ladri di suolo” 4.0 di ultima generazione: poli logistici, cittadelle della salute, nuovi centri commerciali, nuove zone industriali e residenziali in prossimità degli svincoli, ecc. Non possiamo permettercelo perché abbiamo bisogno dei “servizi ecosistemici” del suolo per far fronte ai cambiamenti climatici.
“Adattiamo funzionalmente” il suolo che abbiamo già consumato e sperperato ignobilmente. In Veneto una politica demente e furbesca e la mancanza di una opposizione che faccia della tutela dell’ambiente l’asse portante della propria rivendicazione politica fanno si che leggi e programmi, che in altri paesi civili sarebbero improponibili, si realizzino nella più totale indifferenza.