di Delio Strazzaboschi, Domini collettivi della Carnia.
Un numero crescente di giovani consapevoli rivaluta i territori montani come ambienti in cui sperimentare modi di vita, produzione e consumo, basati sui bisogni essenziali e sul benessere delle persone. Per questo tentano ovunque il recupero innovativo dei valori patrimoniali locali, l’ambiente e il paesaggio, le tradizioni e i saperi, le terre collettive. È un orientamento culturale che considera la vita in montagna alternativa e di qualità superiore rispetto agli agglomerati urbani e le loro problematiche periferie, e non solo per ragioni climatiche.
I nuovi abitanti della montagna potrebbero essere molti di più se essa fosse resa normalmente abitabile e produttiva. Non solo internet, ma semplicemente una viabilità decente (la Villa Santina-Ovaro, ad esempio, che si aspetta da cinquant’anni) che permetterebbe di lavorare a fondovalle o in città ed abitare la montagna.
Niente di rivoluzionario, investimenti pubblici in infrastrutture fisiche e digitali che sarebbero ampiamente ripagati dal recupero del patrimonio immobiliare, da nuova economia ed occupazione locale, dalla riduzione dei rischi idrogeologici.
Certo, le politiche di lungo respiro pagano pochi voti, e specialmente in aree poco abitate, ma il problema della montagna e delle aree interne dovrebbe essere finalmente considerato una grande questione nazionale, ripensando anche la qualità dei servizi locali e le politiche multisettoriali indispensabili al ripopolamento. Occorre una vera inversione concettuale delle priorità di incentivazione economica: non più la crescita dell’impresa in quanto tale, ma le necessità del territorio e lo sviluppo delle sue potenzialità.
L’Italia è infatti un Paese che ha falsa coscienza di sé: crede di essere una nazione di pianura, mentre è un Paese di montagna (due terzi del territorio).
Si pone perciò il problema dell’autogoverno delle Comunità locali: piccoli borghi che non si riconoscono nel loro Comune, inutile, senza soldi e senza servizi, e neppure nelle aggregazioni sovra comunali, incapaci di operare come agenzie di riqualificazione e sviluppo semplicemente perché prive delle persone capaci di farlo.
Indispensabile allora la crescita della coscienza di luogo (una nuova attenzione alla propria storia e ai propri beni comuni materiali ed immateriali) e della democrazia di luogo (le forme di autogoverno dal basso).
Sì, dunque, alla costruzione di organizzazioni semplici (Domini Collettivi e Cooperative di Comunità) che si pongano apertamente l’obiettivo rivoluzionario della gestione della Comunità: finalità no-profit (servizi e lavoro per i membri della Comunità), inalienabilità dei Beni collettivi (e loro gestione innovativa e tecnologica), valorizzazione organica del patrimonio culturale (economico, ambientale e paesaggistico), e conseguente riduzione dei disagi e delle disuguaglianze.
Ma è il capitale sociale dei giovani e di coloro che tornano ad abitare la montagna (umiltà nei confronti della natura, strategia collettiva, tenacia mai rinunciataria) il reagente indispensabile che potrà mettere a valore le potenzialità patrimoniali in redditività futura, trasformando legittima rabbia e sacrosanto risentimento della montagna in un nuovo impegno per il suo avanzamento sociale.