di Vezio De Lucia.
A meno di un mese dall’acqua alta del 12 e 13 novembre (187 cm sul medio mare), mi sembra già tristemente affievolita l’indignazione dell’opinione pubblica. Un’indignazione comunque non confrontabile con la lunga e commossa partecipazione nazionale e internazionale che si era sviluppata dopo l’alluvione del novembre 1966. Prevalgono oggi sentimenti di rassegnazione e di dimissione dall’impegno civile in più occasioni denunciati. Solo a Venezia non dimenticano che l’acqua alta incombe con frequenze e livelli sempre più drammatici e che il cambiamento climatico è ormai la normalità, non l’emergenza. Non mollano movimenti e associazioni storicamente consapevoli, oggi affiancati dai seguaci di Greta Thunberg, che contestano la politica, di maggioranza e di opposizione, e i suoi esperti in sudditanza che fanno coincidere la sicurezza fisica di Venezia e della Laguna con il completamento del Mose.
Ma Venezia e la sua Laguna sono – unitariamente – la massima espressione del nostro patrimonio storico, artistico e ambientale, perciò penso che dovrebbe essere vastissimo il dibattito sul Mose. Ricordando che in tutta la sua storia millenaria la Serenissima ha affrontato i problemi della salvaguardia fisica sulla base di tre fondamentali criteri, quelli della gradualità, della sperimentalità, della reversibilità delle opere poste in essere. La Laguna era sottoposta a un accuratissimo controllo dello spazio aperto – affidato ai “savi” e agli “esecutori alle acque” – fondato sulla quotidianità della vigilanza, la successione coordinata degli interventi, l’osservazione costante dei loro effetti. Veniva rimossa un’opera avviata se si riscontravano risultati contrastanti con quelli attesi. Grazie a questa filosofia è sopravvissuta la Laguna di Venezia, uno specchio d’acqua alimentato dall’acqua dolce dei fiumi e da quella salata del mare che penetra in Laguna attraverso le bocche aperte fra i lidi. Il destino di ogni laguna è di trasformarsi in terraferma, se vince la forza dei fiumi; oppure in un golfo, se vince la forza delle onde. Quella di Venezia è l’unica laguna al mondo che si è sottratta all’uno e all’altro destino. Per mille anni le forze contrastanti dei fiumi e del mare, della terra e dell’acqua, sono state rigorosamente e severamente governate evitando che l’una prevalesse sull’altra. Per i “savi” sarebbe stato un delitto pensare a un’unica grande opera risolutiva dell’equilibrio ambientale.
Bastava conoscere un po’ di storia per evitare il Mose.
Il prodigio dell’equilibrio lagunare finì con la pace di Campoformio del 1797, quando la Serenissima fu ceduta da Napoleone all’imperatore d’Austria. Finì il governo demaniale, cioè indivisibile, della laguna. Parti estese di essa furono privatizzate, bonificate e ridotte a campagna; altre trasformate in “valli da pesca”, chiuse da argini e destinate a coltivazioni ittiche, altre parti ancora, in epoche più recenti, imbonite e convertite in zone industriali. Così un terzo circa della Laguna fu sottratto al gioco delle acque del mare e dei fiumi. Altri danni furono provocati dall’allargamento delle bocche di porto e dall’approfondimento dei canali. E per anni l’attivazione di pozzi per l’emungimento dell’acqua di falda per usi industriali ha causato l’abbassamento del livello del suolo. L’aumento del volume d’acqua entrante in laguna e la riduzione dello spazio a essa disponibile ha comportato il progressivo aumento delle frequenze e dell’intensità delle inondazioni delle isole lagunari. Ancora oggi si propongono, insensatamente, nuovi canali per allontanare da San Marco le navi crociera.
L’unico provvedimento in controtendenza furono i cosiddetti “Indirizzi” – deliberati dal governo nell’aprile del 1975 grazie alla determinazione del ministro repubblicano Pietro Bucalossi – che stabilirono l’eliminazione della famigerata terza zona industriale: circa quattromila ettari, nella laguna a Sud di Porto Marghera, assurta a simbolo del gigantismo industriale di Venezia negli anni Sessanta. Mentre la parte già imbonita della terza zona andava restituita “alla libera espansione delle maree”.
Ma a mano a mano la logica funzionale alla conservazione dell’equilibrio naturale attraverso un complesso di interventi ecologicamente sostenibili è stata accantonata a favore della soluzione unica fondata sulla chiusura a tempo delle bocche di porto, poi concretizzata nel Mose – modulo sperimentale elettromeccanico: una soluzione mostruosa, non solo per l’impatto sulla morfologia lagunare e per la mai accertata funzionalità, ma anche dal punto di vista istituzionale, essendo la progettazione e la realizzazione del Mose affidate a un medesimo soggetto privato, il consorzio Venezia Nuova, che opera per concessione dello Stato. Soluzione criminogena l’ha definita Raffaele Cantone. Mostruosa anche per i costi esorbitanti, quasi triplicati nel tempo, ormai oltre sei miliardi di euro (senza tener conto di quelli, inauditi, dicono cento-centoventi milioni l’anno, per il funzionamento e la manutenzione, ove l’opera fosse completata) e mostruosa per l’entità della corruzione che ha generato, con gli arresti e la condanna di un ministro, di un presidente del Veneto, di alti esponenti dell’imprenditoria, della pubblica amministrazione e delle professioni.
Le questioni dell’acqua alta e del futuro del Mose, vanno ovviamente considerate insieme agli altri gravissimi problemi di Venezia, lo spopolamento, l’espansione selvaggia del turismo, le grandi navi, ecc. Intorno a tutto ciò, il ceto medio riflessivo, la cultura e quanto resta della politica progressista, la stampa e il mondo delle comunicazioni indipendenti dovrebbero pretendere e garantire quell’informazione continua, critica e aggiornata che oggi non c’è.
Il punto di partenza non può non essere la lettera che 12 associazioni – dal movimento “Per un’altra città possibile” a Italia Nostra di Venezia – hanno inviato il 25 novembre ai ministri del cosiddetto Comitatone per Venezia. Nella lettera si definisce “sciagurata” la scelta di assegnare al consorzio Venezia Nuova un ulteriore finanziamento per finire il Mose. Le dighe mobili, continua la lettera, sono “un progetto nato vecchio, intrinsecamente fragile per la sua complessità e la sua rigidità”. E le associazioni sottopongono ai ministri 6 richieste, la prima di “non destinare un solo euro al completamento delle dighe mobili prima di aver scientificamente dimostrato la loro possibilità di funzionare”. Altre importantissime richieste riguardano il divieto di transito lagunare alle grandi navi da crociera e da trasporto merci, collocando un apposito terminal fuori della Laguna. Ma, a quanto se ne sa, ancora una volta il Comitatone ha scelto di non voler capire e di non voler sapere, percorrendo la via più facile e irresponsabile di finanziare ancora il Mose. E incrociamo le dita.
La lettera delle 12 associazioni, insieme a informazioni sul lavoro svolto di ascolto e di elaborazione, sul sito: https://www.unaltracittapossibile.it/.
Tratto da: https://emergenzacultura.org/2019/12/16/vezio-de-lucia-parliamo-del-mose/#more-7807