A cura del Prof. Leandro Janni, Presidente di Italia Nostra Sicilia.
A metà del secolo scorso, Adriano Olivetti affermava: «L’Italia procede ancora nel compromesso, nei vecchi sistemi del trasformismo politico, del potere burocratico, delle grandi promesse, dei grandi piani e delle modeste realizzazioni.»
Italia, estate 2020. Si torna a parlare, a discutere animatamente della “grande opera delle opere italiane”: il ponte sullo Stretto di Messina. Si tratta di uno dei progetti mai realizzati dalla storia più lunga, addirittura secolare, periodicamente richiamato come priorità dai governi delle più disparate coloriture politiche. Ma cosa intendiamo per ponte sullo Stretto di Messina?
Lo speciale mega manufatto comprende una serie di progetti di ingegneria civile per la realizzazione di un ponte sospeso tra la Sicilia e la Calabria, con sede stradale e ferroviaria, a campata unica. Il progetto complessivo prevede: 3.300 metri lunghezza della campata centrale; 3.666 metri lunghezza complessiva con campate laterali; 60,4 metri larghezza dell’impalcato; 399 metri altezza delle torri; 2 coppie di cavi per il sistema di sospensione; 5.320 metri lunghezza complessiva dei cavi; 1,26 metri diametro dei cavi di sospensione; 44.323 fili d’acciaio per ogni cavo di sospensione; 70/65 metri di altezza di canale navigabile centrale per il transito di grandi navi; 533.000 metri cubi di volume dei blocchi d’ancoraggio. Questo, quantomeno, è ciò che ha previsto, per la realizzazione del ponte, la concessionaria Stretto di Messina S.p.A.
Ad ogni modo, qui e ora, in attesa di nuovi sviluppi, ricordo l’articolo che il caustico Gesualdo Bufalino scrisse il 19 settembre 1985 per la Repubblica.
«Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poiché con le isole il punto è questo: sono di per sé parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicché rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benché non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’Alitalia e l’Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’Italia, dall’Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno né la segregazione né l’ aggregazione a salvarcene: né una chirurgia che ci amputi, né un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.» (Gesualdo Bufalino)