A cura di Endri Orlandin.
Sono da poco trascorsi vent’anni dall’apertura alla firma degli Stati membri della Convenzione europea del paesaggio (avvenuta a Firenze il 20 ottobre 2000) e pian piano si stanno spegnendo le luci e i microfoni delle molteplici celebrazioni avvenute prevalentemente in rete attraverso webinar o conferenze on-line, con la partecipazione di oratori della più diversa estrazione scientifica e professionale.
Ad alcuni eventi chi scrive vi ha partecipato, sia come relatore che, soprattutto, come spettatore. Tutti hanno dato grande enfasi al ruolo avuto dalla Convenzione nella definizione di un nuovo approccio alla pianificazione paesaggistica e nella sua capacità di rilanciare il ruolo del paesaggio nel nostro paese.
Ma più i punti di vista, le opinioni, le considerazioni, le valutazioni si indirizzavano verso affermazioni frequentemente positive, sulle esperienze condotte in Italia, alcune domande cominciavano a farsi strada.
Perché a fronte di esiti tanto incoraggianti il paesaggio nel nostro paese viene così frequentemente messo in pericolo da volontà trasformative? Perché questo patrimonio costituito dalla stratificazione di sedimenti materiali e immateriali lo stiamo sempre più depauperando? Perché le comunità, che sono in costante relazione con esso, entrano solo marginalmente nei processi decisionali che determinano le scelte di pianificazione e gestione?
Credo in realtà che non sia tutto oro ciò che luccica e che dei principi della Convenzione europea del paesaggio che avrebbero dovuto trovare spazio prima di tutto nelle leggi nazionali (1) e a cascata in quelle regionali ci sia davvero pochissimo; forse qualcosa di più si può rinvenire in alcune pratiche di pianificazione e gestione del paesaggio in talune esperienze regionali. Ma, se si escludono questi rari casi, la situazione è alquanto deludente.
Che cos’è la Convenzione europea del paesaggio?
È un trattato internazionale con un approccio “inclusivo” al paesaggio che riconosce giuridicamente questa entità spaziale quale componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità.
Guida gli Stati nella formulazione di politiche paesaggistiche volte alla protezione, gestione e pianificazione dei paesaggi avviando procedure di partecipazione delle popolazioni, degli enti territoriali e degli altri soggetti coinvolti nella definizione e nella realizzazione delle politiche paesaggistiche.
È volta a integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione urbanistica e territoriale, oltre che in quelle di carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico.
Promuove la protezione, la gestione e la pianificazione dei paesaggi e favorisce la cooperazione tra nazioni; si applica a tutto il territorio degli stati (spazi naturali, rurali, urbani e periurbani). Riconosce in egual misura i paesaggi che possono essere considerati come eccezionali, i paesaggi della vita quotidiana e quelli degradati, infine pone al centro del processo di designazione dei paesaggi le comunità locali attraverso percorsi partecipativi delle popolazioni, chiamate ad autodeterminarsi anche attraverso la definizione delle proprie geografie del quotidiano.
Le tre P della Convenzione europea del paesaggio
Sono tre gli aspetti metodologico-applicativi ai quali la Convenzione è incardinata e con i quali il Codice dei beni culturali e del paesaggio (2) (che regola la materia in Italia) dovrebbe prioritariamente interfacciarsi ma, in questa interazione asimmetrica emergono evidenti dissonanze non tanto in termini semantici quanto di paradigmi teorici e principi operativi.
Il primo disallineamento attiene al paesaggio, la cui concettualizzazione e definizione espressa dalla Convenzione non collima perfettamente con quanto enunciato dal Codice determinando, all’interno del contesto nazionale, discutibili effetti sull’azione volta alla sua difesa.
Il secondo sfasamento concerne la partecipazione, che viene interpretata in maniera antitetica tra Convenzione e Codice. Dalla prima viene intesa come il ruolo che devono svolgere le popolazioni nell’attività di definizione e identificazione dei paesaggi e successivamente nella loro pianificazione e gestione. Dal secondo come mero adempimento procedurale, inserito nell’iter di formazione del piano paesaggistico tra adozione e approvazione, costituito dalla sola possibilità di presentare delle osservazioni a tale strumento.
Il terzo scostamento ha a che fare con la pianificazione declinata dalla Convenzione quale fine per giungere alla valorizzazione, ripristino e creazione di paesaggi rispetto al Codice che la traduce invece in una procedura con cui sottoporre prioritariamente a specifica normativa d’uso i beni paesaggistici attraverso la predisposizione del piano paesaggistico. Anche in questo caso la divergenza risiede sia nella filosofia applicativa, sia nella mancanza di volontà e di ricerca di strumenti, anche “alternativi” al tradizionale piano, che siano in grado di generare processi proattivi e/o negoziali, volti alla valorizzazione e al ripristino dei paesaggi (riprendendo il dettato della Convenzione), al fine del superamento del tradizionale e limitato approccio vincolistico proprio del piano paesaggistico (3).
Un confronto dicotomico tra Convenzione e Codice sui principi applicativi
Prima asimmetria. Definizione di paesaggio
L’enunciazione di paesaggio contenuta nella Convenzione all’articolo 1 lo esprime quale “parte di territorio come viene percepita dalle popolazioni il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni”. La formulazione adottata invece dal Codice, all’articolo 131, è quella di “territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni”.
Il voler mettere a confronto le due definizioni non nasce come mero esercizio di retorica semantica, ma dalla necessità di evidenziare come l’Italia abbia seguito una strada fortemente ancorata alla propria tradizione legislativa in materia di beni paesaggistici (4) piuttosto che intraprendere un percorso più innovativo e maggiormente ispirato alle istanze della Convenzione.
Il rapporto tra Convenzione e Codice rispetto alla nozione di paesaggio sta nella constatazione che quest’ultimo è andato considerevolmente ampliandosi rispetto ai beni paesaggistici, che per tradizione erano oggetto indiscusso della tutela statale, sino a interessare potenzialmente tutto il territorio nazionale. Inoltre a tale considerazione si aggiunge il ruolo che la Convenzione attribuisce alle popolazioni nella determinazione del paesaggio attraverso la percezione del significato che di esso ne hanno e ne restituiscono. In quest’ottica l’idea di percezione che ne deriva è assai sfaccettata, può interessare aspetti fisici e geografici, oppure entrare in una dimensione più emotiva connessa alla sfera sensoriale piuttosto che sentimentale, o anche configurarsi come narrazione o memoria, stratificazione di sedimenti cognitivi materiali e immateriali.
Il senso identitario che le comunità attribuiscono ai loro spazi di vita, attraverso la percezione, rappresenta quindi il punto di svolta nella risoluzione della dicotomia parte di territorio/paesaggio. La percezione socio-culturale costituisce una prerogativa fondativa del paesaggio, come del resto il paesaggio rappresenta un’espressione dell’evoluzione identitaria di una società.
Ma di tutto ciò che attiene alla dimensione della percezione e del ruolo delle popolazioni nella definizione/identificazione del paesaggio il Codice se ne disinteressa, formulando invece una contradditoria definizione di paesaggio.
Al comma 2, dell’articolo 131, il testo recita “il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”. In un’ottica di maggiore allineamento con l’articolo 9 della Costituzione tale formulazione va apprezzata, ma permane un dubbio interpretativo legato all’avverbio “relativamente” connesso agli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale che sembra sottendere un’interpretazione orientata a un ritorno al tradizionale approccio basato sulla differenziazione tra le aree tutelate ope legis e le località dichiarabili di notevole interesse pubblico. Il dubbio si accresce ancor di più quando, nel combinato disposto con l’articolo 135, il Codice afferma al primo comma che lo Stato e le Regioni assicurano che tutto il territorio (non più il paesaggio) sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei diversi valori espressi dai molteplici caratteri che lo generano. Lo strumento con il quale raggiungere tali obiettivi è il piano paesaggistico o in alternativa il piano urbanistico-territoriale, con specifica considerazione dei valori paesaggistici, da redigere congiuntamente tra Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (MiBACT) e Regioni, limitatamente ai beni paesaggistici. In quest’ottica l’omissione della locuzione “concernenti l’intero territorio regionale”, presente nella seconda versione del Codice (quella del 2006), ammette un dubbio interpretativo, e non solo lessicale, sulla reale copertura territoriale del piano paesaggistico (5).
Ancor più il passaggio concettuale da paesaggio a territorio genera ulteriori riflessioni rispetto allo scarto semantico-lessicale intercorso tra le prime due versioni del Codice (2004 e 2006) e quella del 2008. L’utilizzo del termine “territorio” lascia spazio a due possibili interpretazioni. La prima, orientata a un tentativo di recepimento del dettato della Convenzione laddove quest’ultima prevede, all’articolo 2, un’estensione della sua applicazione a tutto il territorio delle Parti (6); tale orientamento però appare repentinamente negato quando nel terzo periodo (del primo comma dell’articolo 135) viene fatto riferimento all’elaborazione congiunta, tra MiBACT e Regioni, del piano paesaggistico limitatamente ai beni paesaggistici (7). La seconda indirizzata verso un’ipotesi di allineamento della pianificazione paesaggistica con la dimensione del “governo del territorio”, ovvero verso una maggiore cooperazione interistituzionale tra Stato e Regioni su una pluralità di questioni e temi. Ma anche in questo caso le “premesse interpretative” vengono disattese dalla formulazione del medesimo terzo periodo che sancisce un indebolimento delle competenze regionali in favore di quelle ministeriali (8).
La procedura derivante da questo percorso legislativo conduce a una sintesi che vede l’evoluzione da una tutela di un paesaggio “frammentato e incompleto” (quello derivante dalla somma delle bellezze naturali e delle zone di particolare interesse ambientale, vincolate rispettivamente ai sensi dell’articolo 1 della legge 1497 del 1939 e degli articoli 1 e 1 quater dalla legge 431 del 1985 oltre ad eventuali integrazioni di nuovi immobili o aree di notevole interesse pubblico) (9) a due tipologie di paesaggi: il primo lavora su un registro metodologico proprio della tradizione delle Soprintendenze e cioè la compilazione di elenchi di beni e la perimetrazione di aree tutelate ope legis, e viene tutelato obbligatoriamente dallo Stato (attraverso il MiBACT) congiuntamente alle Regioni, ed è incentrato su una copianificazione sui beni ex 1497/39 e 431/85, più eventuali ulteriori nuovi vincoli; un secondo ipoteticamente tutelabile dallo Stato (MiBACT e Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare-MATTM) con le Regioni, imperniato su una copianificazione da realizzare a seguito dell’individuazione di ambiti (di paesaggio) per i quali delineare appositi obiettivi di qualità (paesaggistica) e prevedere specifiche normative d’uso, prescrizioni e previsioni (10).
Seconda asimmetria. Ruolo delle popolazioni e loro partecipazione nei processi decisionali in materia di paesaggio
La Convenzione all’articolo 5 “Provvedimenti generali”, lettera c, prevede che ogni Parte si impegni ad avviare procedure di partecipazione del pubblico (e delle autorità locali e regionali) e degli altri soggetti coinvolti nella definizione e nella realizzazione delle politiche paesaggistiche. Tale impegno pone al centro del processo di designazione dei paesaggi le comunità attraverso percorsi partecipativi aperti alle popolazioni, chiamate ad autodeterminarsi anche attraverso la definizione di geografie di prossimità e del quotidiano. Dimostrando come il paesaggio costituisca, a un tempo, evoluzione sociale identitaria e specchio della società (ovvero significato e significante).
Come si può comprendere quindi nella Convenzione la dimensione sociale e partecipativa del paesaggio, attraverso l’introduzione di un approccio percettivo, determina il principio secondo il quale sono le popolazioni che attraverso la loro percezione possono legittimamente riconoscere il paesaggio in quanto tale e, facendo ciò, introdurre nuove scale di valori e di valutazione rispetto all’attribuzione di significato a un luogo.
Bisogna ricordare inoltre che la dimensione del campo di applicazione della Convenzione guarda al paesaggio riferendosi all’intero territorio e non unicamente alle sole eccellenze (nel caso del nostro Paese prioritariamente i beni paesaggistici) includendo i paesaggi degradati e quelli della vita quotidiana con i quali le comunità sono in costante relazione.
All’opposto il Codice sceglie di affrontare la questione della partecipazione sociale alla costruzione del piano paesaggistico assecondando la tradizionale prassi urbanistico-amministrativa italiana in cui il contributo delle popolazioni nei processi di formazione degli strumenti di pianificazione viene “sminuito” inserendolo nella fase di transizione tra l’adozione e l’approvazione del piano e riducendolo esclusivamente al momento in cui possono essere presentate le osservazioni formulate dai diversi portatori di interesse, tra cui anche i cittadini (11). E infatti l’articolo 144 del Codice, “Pubblicità e partecipazione”, al comma 1 prevede che nei procedimenti di approvazione dei piani paesaggistici vengano assicurate la concertazione istituzionale, la partecipazione dei soggetti interessati e delle associazioni portatrici di interessi diffusi (individuate ai sensi delle disposizioni in materia di ambiente e danno ambientale) e ampie forme di pubblicità (12). Tale comma si commenta da sé.
In quest’ottica appare evidente come l’approccio alla costruzione e formazione del piano paesaggistico, nel nostro Paese, non sia assolutamente cambiato nel corso degli anni e la sua filosofia applicativa continui a permanere di tipo verticistico e saldamente fondata sulle indicazioni progettuali definite giuste dalle comunità di esperti.
Ci troviamo difronte a un sistema di principi regolativi che reiterano un approccio di tipo top-down di natura gerarchico-impositiva, che lascia pochissimo spazio all’interazione con le comunità locali, il minimo indispensabile per legge; quello riconducibile, come visto, alla liturgia delle osservazioni al piano. Sappiamo bene come tale approccio nel corso degli anni abbia sempre più fatto emergere contrapposizioni (anche radicali) e contenziosi tra i diversi portatori di interesse e le amministrazioni pubbliche, producendo un costante incremento di comitati e associazioni contro, ma nessun legislatore finora pare vi abbia mai posto la dovuta attenzione (13).
La capacità e la consapevolezza delle popolazioni nell’(auto)identificarsi con i propri paesaggi garantisce che le politiche paesaggistiche, ormai ritenute sempre più strategiche nell’ambito di una governance territoriale sostenibile, siano in grado di valorizzare e assumere efficacemente nei processi di formazione del piano paesaggistico i contributi delle comunità locali, soprattutto ai fini di una partecipazione attiva dei territori nelle dinamiche di pianificazione e gestione del paesaggio.
Tale approccio è in grado di generare, se solo lo si volesse, una rivoluzione nell’idea di paesaggio, delle sue prerogative di bene comune complesso e mutevole, di veicolo di principi plurali e aggregativi, legante delle diverse comunità e strumento di eguaglianza fra popolazioni e quindi di democrazia.
Terza asimmetria. Pianificazione del paesaggio
Chi pianifica il paesaggio italiano?
Ai sensi del primo comma dell’articolo 135 della versione 2008 del Codice la risposta all’interrogativo è assai semplice: lo Stato e le Regioni assicurano che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono. Attenendosi a questa affermazione la materia potrebbe considerarsi concorrente e, andando oltre nella lettura del medesimo articolo, tale condizione sembra essere avvalorata dal fatto che l’elaborazione dei piani paesaggistici deve avvenire obbligatoriamente in forma congiunta tra MiBACT e Regioni, limitatamente ai soli beni paesaggistici (14) e, con il combinato disposto dell’articolo 143 secondo comma, attraverso la stipula di intese tra Regioni, MiBACT e MATTM per la definizione delle modalità di elaborazione unitaria dei piani paesaggistici estesi all’intero territorio regionale.
La situazione però è leggermente diversa.
La copianificazione tra Stato e Regioni va obbligatoriamente condotta in forma congiunta limitatamente ai beni paesaggistici, comprendenti le bellezze individue e d’insieme (ex 1497/39) e le aree tutelate per legge (ex 431/85).
La pianificazione può essere condotta in forma autonoma dalla Regione (o eventualmente congiuntamente con MiBACT e MATTM) per: l’individuazione di possibili ulteriori contesti, da assoggettare a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione; la definizione di interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e delle ulteriori azioni di valorizzazione compatibili con le necessità di tutela; l’articolazione di misure necessarie per l’inserimento, nel contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione territoriale; la delimitazione degli ambiti (di paesaggio) e dei relativi obiettivi di qualità (paesaggistica) (15).
La Convenzione invece affronta all’articolo 1, lettera f, il tema della “Pianificazione dei paesaggi” definendola come l’insieme delle azioni fortemente lungimiranti volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi. Questo approccio ha come scopo il processo di studio, progettazione e costruzione anche di eventuali nuovi paesaggi, creati per soddisfare le aspirazioni delle popolazioni interessate.
Tale formulazione indica come le “aspirazioni delle popolazioni” vadano assecondate indirizzando le azioni di pianificazione dei paesaggi verso processi tesi a rendere vivibili e fruibili tutti quegli spazi (da quelli del quotidiano a quelli della memoria) che concorrono a determinarne l’identità ma, anche come gli abitanti di un luogo debbano concorrere, assieme ai soggetti pubblici, alla definizione delle strategie e delle scelte che andranno a incidere sul loro futuro.
C’è da chiedersi infine, essendo ben consapevoli della provocazione, se non sia ormai giunto il momento di abbandonare un paradigma esclusivamente “impositivo” (16) a favore di strumenti di pianificazione paesaggistica negoziata, strumenti pattizi, volontari e partecipativi, fortemente innovativi e aggregativi con un proprio fondamento giuridico nella Convenzione (17), atti a introdurre forme di gestione sostenibile per territori/paesaggi in cui le realtà locali siano portatrici delle proprie aspirazioni e volontà, anche attraverso percorsi proattivi e inclusivi, come ad esempio forme di amministrazione condivisa che prendano vita da alleanze tra cittadini e pubbliche amministrazioni, magari anche solo affiancando e integrando nella redazione dei piani paesaggistici l’attività di pianificazione degli ambiti di paesaggio e/o nella definizione degli obiettivi di qualità paesaggistica (in quelle attività in cui non è obbligatoria la copianificazione Stato-Regioni e quest’ultime possono procedere autonomamente).
Ormai sono molteplici e mature le esperienze che vanno nella direzione in cui il processo di pianificazione viene inteso soprattutto come pratica sociale: contratti di fiume, di costa, di laguna, di foce, di paesaggio, osservatori del paesaggio, ecomusei, patti di collaborazione, etc.
Un utile caso di studio per comprendere i fondamenti di tale modello è costituito dall’esperienza condotta dalla Regione Umbria attraverso i Contratti di paesaggio che ha avviato nel corso degli anni in alcuni ambiti regionali: “Contratto di paesaggio per i territori montani di Foligno, Trevi e Sellano”, “Contratto di paesaggio del Trasimeno” e “Contratto di paesaggio per i territori dei comuni di Acquasparta, Avigliano Umbro, Montecastrilli e San Gemini” (promosso quest’ultimo dalla Provincia di Terni) (18). L’Osservatorio regionale per la qualità del paesaggio umbro ha assunto tali contratti quali strumenti di pianificazione territoriale negoziata, ascrivibili alla categoria degli strumenti decisionali inclusivi, inerenti azioni di tutela e valorizzazione del paesaggio, volti alla riqualificazione di aree particolarmente rilevanti o sensibili.
Tali strumenti partecipativi sono fondati su intese e accordi, con valore contrattuale, tra comunità locali e istituzioni.
L’elemento qualificante di tale approccio è costituito dal pieno coinvolgimento delle comunità locali; gli abitanti, gli enti locali e le associazioni sono chiamati non solo a rendere conto degli impatti prodotti e dei possibili contributi delle loro azioni rispetto a un processo predefinito, ma a delineare essi stessi obiettivi, strategie e priorità per le scelte future. In questo modo la responsabilità di attenersi agli obiettivi prefissati è garantita dal fatto che tali finalità sono state definite localmente dalla collettività.
I tempi non sono forse maturi per provare ad abbandonare il tradizionale paradigma impositivo e intraprendere un approccio proattivo-negoziale orientato alla partecipazione e all’inclusione delle comunità nell’assunzione di visioni e decisioni ai fini della predisposizione del piano paesaggistico (o di sue parti significative) (19), oppure di progetti partecipati di paesaggio attraverso modalità di governance collaborativa?
Forse gli abitanti del nostro Paese non sono considerati ancora pronti per concorrere fattivamente, e in prima persona, alla formazione degli strumenti di pianificazione paesaggistica che andranno a incidere sulla loro dimensione locale e identitaria?
Nessuno nega le difficoltà del confronto (che a volte può risultare aspro e ostico) e della collaborazione (non sempre bidirezionale) con le comunità locali ma, in un’ottica e forse ancor più in un’etica di autolegittimazione e maturazione del consenso nei confronti di un processo di pianificazione, un simile sforzo dovrebbe essere compiuto, anzi preteso dalla comunità prima ancora che espresso dalle leggi.
NOTE:
1.La Convenzione è “confluita” nel sistema legislativo nazionale attraverso la legge 9 gennaio 2006 n. 14 “Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sul paesaggio”.
- Decreto legislativo 22 gennaio 2004 n.42, successivamente modificato dal Decreto legislativo 24 marzo 2006 n. 156 e n. 157 e dal Decreto legislativo 26 marzo 2008 n. 62 e n. 63.
- Non bisogna dimenticare tuttavia come nel nostro paese finora tale approccio abbia garantito l’incolumità paesaggistica in diversi contesti territoriali ma, va anche ricordato che tale contenimento spesso è clamorosamente venuto meno, aprendo ampie smagliature nel sistema delle tutele paesaggistiche all’interno delle quali sia abusivismo che interventi legittimi hanno trovato spazio con colpevole frequenza e facilità.
- Per i quali l’unico riferimento plausibile è costituito dall’automatica applicazione del vincolo ex lege.
- “Un inaccettabile passo indietro rispetto a precedenti stesure del Codice sta nella delimitazione del territorio oggetto del piano paesaggistico elaborato congiuntamente da Stato e Regioni. Prima dell’accordo con le Regioni, l’area di piano coincideva con “l’intero territorio regionale”. Il testo definitivamente approvato, assume invece come area di piano quella limitata “ai beni paesaggistici” (art. 135, c. 1), e cioè agli immobili vincolati a norma delle leggi del 1939, alle categorie della legge Galasso e alle loro integrazioni. Non è difficile intendere che in tal modo risulta velleitario e astratto, quand’anche effettivamente praticato, l’obiettivo dell’art. 145…”, V. De Lucia, “La tutela del paesaggio”, Eddyburg, 20-02-2012 (archivio.eddyburg.it/article/articleview/18436/0/99/).
- Gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani; i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. I paesaggi che possono essere considerati eccezionali, i paesaggi della vita quotidiana e i paesaggi degradati.
- I beni della legge n. 1497 del 1939 e le aree sottoposte a tutela dalla legge n. 431 del 1985, con alcune integrazioni.
- Ciò facendo “… il ruolo dello Stato nei processi di pianificazione non risulta più eventuale e, seppur formalmente mantenuta alla sfera regionale, l’approvazione del piano appare sempre meno ricadere nella sfera di autonomia delle regioni per essere attratta sempre più nei modelli di codecisione propri dell’atto complesso. E che si tratti di una complessità fondata su una diseguaglianza, perché sbilanciata a tutto vantaggio delle determinazioni statali, appare confermata dalla disciplina prevista dalla norma di cui all’art. 143 riguardo alla procedura di definizione del piano ed ai suoi effetti: se, infatti, il piano non è elaborato ed approvato nel termine indicato nell’accordo/intesa tra lo Stato e la Regione, il ministero può sempre agire in via sostitutiva, sentito il ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio; inoltre, in mancanza dell’accordo, il parere della soprintendenza resta comunque vincolante e non sono ammesse le deroghe previste in materia di rilascio dell’autorizzazione.” G.F. Cartei, “Codice dei beni culturali e del paesaggio e Convenzione europea: un raffronto”, Aedon, n. 3, 2008, il Mulino (http://www.aedon.mulino.it/archivio/2008/3/cartei.htm).
- Che continua a escludere dalla sua sfera di interesse l’estesa ed eterogenea geografia dei paesaggi agrari che così significativamente hanno modellato il nostro Paese, determinandone l’assetto e forgiandone l’identità (grazie alla sapienza degli agricoltori).
- Per la conservazione degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni paesaggistici sottoposti a tutela; la riqualificazione delle aree compromesse o degradate; la salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche degli altri ambiti territoriali, assicurando, il minor consumo di territorio; l’individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio.
- In tal modo le comunità possono interagire con il processo di formazione del piano solo a valle della sua redazione e potendo fornire un contributo solo preliminarmente all’approvazione. In tal modo si finisce per perdere quello che invece dovrebbe essere un apporto essenziale delle popolazioni alla costruzione dello strumento di pianificazione. Va ricordato inoltre come nell’Accordo Stato-Regioni del 19 aprile 2001 tra Ministro per i beni e le attività culturali e le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano sull’esercizio dei poteri in materia di paesaggio all’articolo 6 “Consultazione pubblica” venisse previsto che nei procedimenti di redazione della pianificazione paesaggistica venissero assicurate la concertazione istituzionale e le più ampie forme di pubblicità e di partecipazione dei soggetti privati interessati e delle associazioni costituite per la tutela degli interessi diffusi. In questo caso facendo riferimento ai processi di redazione l’apporto delle popolazioni era inteso tutto l’intero percorso di formazione del piano e non solo tra adozione e approvazione.
- Generalmente negli albi pretori delle amministrazioni pubbliche e sui principali mezzi di comunicazione (stampa, radio, televisione, siti internet, etc.) viene data notizia dell’adozione del piano e per la durata di un determinato lasso di tempo è possibile per i cittadini presentarvi le osservazioni.
- Forse qualcosa si è intravisto con l’introduzione del dibattito pubblico (ai sensi dell’articolo 22 del DLgs 18 aprile 2016 n. 50 “Nuovo codice dei contratti pubblici”) nell’iter di realizzazione delle grandi opere infrastrutturali e di architettura di rilevanza sociale, aventi impatto sull’ambiente, sulla città o sull’assetto del territorio. Ma anche questo spiraglio è rimasto tale, in quanto il comma 6 bis, dell’articolo 8 “Altre disposizioni urgenti in materia di contratti pubblici” della legge 11 settembre 2020 n. 120 “Decreto Semplificazioni”, ha previsto (causa Covid-19) una deroga al ricorso alla procedura di dibattito pubblico preliminare a una grande opera pubblica fino al 31 dicembre 2023.
- Tale condizione è andata sensibilmente trasformandosi dalla versione originale del 2004 (e da quella del 2006) a quella attuale del Codice. Nella prima, l’articolo 135, primo comma, prevedeva che le regioni assicurassero che il paesaggio fosse adeguatamente tutelato e valorizzato mediante l’approvazione di piani paesaggistici concernenti l’intero territorio regionale. La versione corretta e integrata del Codice del 2006 prefigurava la possibilità che le regioni potessero collaborare con lo Stato alla stesura del piano paesaggistico esteso all’intero territorio regionale. Quindi non vigeva l’obbligatorietà della redazione congiunta del piano che invece è stata introdotta nell’ultima versione del Codice, anche se limitatamente ai beni paesaggistici.
- Articolo 143, primo comma, lettere da e) a i).
- Che ha portato all’approvazione, in sedici anni dall’emanazione del DLgs n. 42 del 2004, di soli cinque piani paesaggistici regionali (Puglia, Toscana, Calabria, Piemonte e Friuli Venezia Giulia). Il piano paesaggistico regionale della Sardegna (che sarebbe il sesto), pur essendo stato approvato nel 2006, è solo parziale in quanto esteso esclusivamente agli ambiti costieri. Il piano territoriale paesistico del Lazio (che avrebbe portato a sette il numero dei piani approvati) che recentemente, con sentenza n. 240/2020 della Corte Costituzionale, è stato annullato in quanto approvato unilateralmente da parte della Regione; stessa sorte toccata all’ottavo piano predisposto senza la necessaria copianificazione con il MiBACT, approvato unilateralmente da Regione Lombardia e successivamente annullato.
- Dove riconosce nel paesaggio la sintesi del territorio e della percezione che di esso ne hanno le popolazioni e ancor più dove richiede l’impegno ad avviare procedure di partecipazione pubblica nella definizione e realizzazione delle politiche paesaggistiche (rispettivamente articolo 5, lett. a e lett. c).
- Regione Umbria, http://www.umbriapaesaggio.regione.umbria.it/pagine/strumenti-partecipati.
- Per esempio l’individuazione degli ambiti di paesaggio o la definizione degli obiettivi di qualità paesaggistica come visto in precedenza.
Che Franceschini e co. hanno distrutto alla radice ogni struttura e ogni sapere in tema di “difesa “del paesaggio . Si è in buona sostanza e in modo becero voluto privilegiare anche in questo campo il mero ed illusorio “sviluppo”.
ggallo