E sabato 26 giugno (ore 17.30) è prevista un’assemblea/webinar dei movimenti contro le grandi opere inutili e imposte.
La crisi economica ormai cronica, aggravata dalla sindemia da covid-19, si unisce a quella climatica in un drammatico mix che si abbatte sui territori e i settori sociali più svantaggiati economicamente.
La soluzione proposta dal Governo per uscire da questo disastro affida in buona parte la ripresa economica e la crescita del PIL alla realizzazione di nuove infrastrutture dalla dubbia utilità e dagli impatti piuttosto pesanti sui territori. La lobby dei grandi cantieri, molto forte e attiva dentro Confindustria, ha orecchie attente anche dentro tutto lo schieramento politico parlamentare, compresa la finta opposizione che sta solo preparandosi a ereditare le redini del potere.
Soltanto l’Italia, tra le 27 nazioni UE, ha integrato il recovery plan con lo sblocco di quei cantieri previsti fin dal 2001 dalla L. Obiettivo di Berlusconi – mai avviati o rimasti fermi finora nonostante le semplificazioni dei vari governi Monti, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e 2, per problemi tecnici e ambientali più che per le opposizioni di movimenti e ambientalisti o “per l’odiata burocrazia”. Con il risultato di stravolgere, fino a cancellarla, l’invocata “transizione ecologica”.
La riprova che il piano italiano arriva addirittura a negare i criteri del Green Deal europeo e ad assumere i caratteri di un nuovo “attacco all’ambiente” (altro che svolta ecologica!) sta nelle cifre: si spendono per Alta Velocità e Grandi Opere, tra PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e SBLOCCA CANTIERI 21, oltre 110 miliardi di Euro. Laddove per risanamento e riqualificazione del territorio e manutenzione del patrimonio infrastrutturale si spende meno del 10% di tale cifra!
Tutti gli interventi previsti, come in passato, sono soprattutto infrastrutture ferroviarie e autostradali che danno garanzie ai costruttori di proficui profitti. Ancora si continua a gettare una mole enorme di risorse in opere scollegate tra loro e senza un chiaro piano della mobilità del paese, si pensa soprattutto al trasporto di una piccola élite senza alcuna analisi della domanda sociale globale e dei ritorni economici. A differenza della vulgata ufficiale che magnifica solo la “velocità”, le necessità di trasporto vengono soprattutto dalle esigenze di mobilità nella media distanza o delle città; purtroppo anche quando si parla di mobilità cittadina o suburbana si pensa ancora a grandi infrastrutture gerarchiche invece che ad un trasporto capillare che sia accessibile a tutti e integri le periferie.
In queste condizioni anche l’investimento di decine di miliardi in infrastrutture causa soltanto danni sempre più profondi ed estesi all’ambiente ma non redistribuisce ricchezza ed è soprattutto un sostanziale finanziamento parassitario del complesso industriale/finanziario dominante. Qualcuno ha definito questo fenomeno un “keinesismo per ricchi”. Con questi metodi non si uscirà mai dalla cronica emergenza deflazionistica e si avranno solo ulteriori disuguaglianze.
La consueta narrazione propinata dal sistema politico dominante giustifica queste opere come strumento per risolvere l’enorme disoccupazione esistente; anche questa è una solenne falsità: oggi questi lavori sono prevalentemente meccanizzati, soprattutto l’escavazione di gallerie tanto amate dalla lobby del cemento; sono attività capital invensive con bassissima incidenza di mano d’opera. Per rilanciare l’occupazione occorrono progetti di dimensioni ridotte e dalla forte domanda sociale come la messa in sicurezza del territorio, lo sviluppo di vera mobilità collettiva, manutenzione e riuso dell’esistente.
Oggi nessuno pare più notare che la maggior parte dei fondi del Next Generation UE sono debiti futuri soprattutto per le prossime generazioni, soggetti per di più a rigide condizioni imposte dalla Commissione Europea; adesso vengono presentati come generosi regali, ma si trasformeranno in fortuna per pochi che poi il paese dovrà ripagare.
Quello cui assistiamo è, oltre ad un sostanziale furto di risorse economiche, un attacco frontale ai residui di democrazia rappresentativa; processo in corso da tempo, imposto dalla globalizzazione neoliberista che, con l’incoronazione di Mario Draghi, già principe delle banche, a monarca taumaturgico, sta finendo di esautorare il pallido simulacro del Parlamento da ogni decisione e discussione. Proprio l’approvazione del PNRR è stato una prova di questo tristo totalitarismo: il testo del Piano, di parecchie centinaia di pagine, è stato consegnato ai gruppi parlamentari pochi giorni prima del voto; questo è avvenuto praticamente senza alcuna discussione. Il Parlamento è ormai ridotto a strumento notarile di ratifica di decisioni partorite in ristretti gruppi di potere extra-istituzionale.
Da anni la politica espressa dalle istituzioni è lontana dalla realtà sociale, adesso assistiamo ad una accelerazione pericolosa, foriera di un clima repressivo che dovrebbe preoccupare; il fascismo non è solo archeologia di olio di ricino e gagliardetti.
I sintomi di questa deriva autoritaria sono presenti da tempo e lo hanno ben sperimentato i gruppi che più efficacemente hanno cercato di contrastare le politiche di devastazione dei territori, come il movimento No TAV o quello No TAP o quello che si è opposto alle folli politiche di gestione dei rifiuti: i territori sono stati militarizzati, dichiarati assurdamente “zone strategiche”, sostanzialmente occupati da reparti delle forze dell’ordine o addirittura dell’esercito.
In questo clima un altro frutto avvelenato è l’alto rischio di persecuzioni giudiziarie e di obbrobri giuridici (come le recenti condanne di Dana Lauriola e Nicoletta Dosio il cui reato è stato di parlare ad un megafono durante una manifestazione; ma l’elenco in tutta Italia sarebbe lunghissimo).
Normali diritti costituzionali e il buon senso sono stati cancellati criminalizzando popolazioni e gruppi che osano opporsi.
Paradossalmente, con la scusa di difendere una legalità fatta di imposizioni, si stanno smantellando basilari strumenti di controllo e di tutela del territorio: furiose semplificazioni, evocate da chi interessato a imporre grandi opere, in realtà non semplificano, ma complicano la vita della società e garantiscono solo gli interessi della peggior minoranza esistente.
Si richiede a gran voce non solo la modifica del Codice degli Appalti, cosa che potrebbe avere un senso se diretta a velocizzare e rendere chiari i processi di controllo, ma addirittura la sua abolizione; qualunque garanzia per il territorio e le persone è vista come un ostacolo da abbattere per il glorioso trionfo del profitto privato di grandi gruppi finanziari.
Un’altra vittima di questa deregolamentazione sarà sicuramente il mondo del lavoro, non è difficile immaginare un’impennata negli incidenti sul lavoro, soprattutto in un settore già così pericoloso e dove è così diffuso il lavoro precario e irregolare.
Con la proposta della Soprintendenza Unica Nazionale si pensa di distruggere uno dei pochi baluardi, peraltro molto indebolito, a difesa del territorio, del paesaggio e del patrimonio culturale.
La logica che guida la furia emergenziale di questo governo abbattutosi sul paese è di piegare tutto agli interessi di pochi; ogni ostacolo va eliminato. Che poi queste presunte semplificazioni complichino la vita di piccole imprese e semplici cittadini è una cosa che nessuno vuol rilevare, ma è una grottesca realtà.
La logica delle grandi opere inutili purtroppo sta travolgendo anche il settore delle tecnologie rinnovabili: l’emergenza climatica, fatto indiscutibile, viene usata per imporre a territori e popolazioni impianti che hanno più funzioni speculative che non di produzioni sostenibili. Gli interessi delle grandi imprese riciclate alle rinnovabili stanno abbattendosi in maniera antidemocratica su territori spesso marginali che ne usciranno ulteriormente impoveriti, sconvolgendo equilibri economici ed ecologici già precari, distruggendo talvolta terreni a vocazione agricola che saranno sempre più necessari nel prossimo futuro e che andrebbero difesi con cura.
Ci sarebbe da chiedersi perché non coinvolgere questi territori nella progettazione e gestione di indispensabili impianti di rinnovabili invece di favorire le solite multinazionali che estraggono ricchezza, non la portano. Favorire la territorializzazione delle produzioni energetiche non solo avrebbe benefici enormi per le comunità, ma favorirebbe il ripopolamento di territori marginali che rischiano l’abbandono.
In ambiti urbani l’auto-produzione da rinnovabili potrebbe dare un sostegno economico alle famiglie che vivono soprattutto nelle periferie. Le rinnovabili avrebbero il grande pregio di non avere necessità di grandi impianti centralizzati, ma potrebbero essere strumento di democrazia economica. Non ci pare, però, che questo governo abbia minimamente intenzione di favorire politiche del genere.
Una possibile via d’uscita dalla crisi economica ed ambientale non può essere affidata solo alle tecnologie come spesso, anche tra molti ambientalisti, si pensa; le tecnologie non sono mai neutre, la loro progettazione risponde agli interessi di chi le promuove.
Il futuro sarà meno fosco se usciamo dall’illusione di una gestione centralizzata e funzionale ai soli dati del PIL e andremo verso una progettazione delle infrastrutture, anche energetiche, affidate ai territori, cioè agli abitanti, con una pianificazione nazionale innestata da una partecipazione dal basso.
Le scelte non condivisibili del governo italiano contenute nel PNRR avranno ricadute molto negative socialmente, economicamente e sull’ambiente.
Si è scelto solo di perseverare con cemento e distruzione di suolo.
Occorre far capire che esiste un movimento che dice no e ha altre proposte.