di Frederick Bradley.
In un suo recente post sul Fatto Quotidiano, Ferdinando Boero, Professore di Zoologia all’Università di Napoli, vuole chiarire l’equivoco creato, a suo dire, nel considerare paesaggio e ambiente sinonimi. Credo sia necessario fare a mia volta chiarezza sul significato del termine paesaggio. Premetto che non voglio addentrarmi in un’inutile diatriba terminologica, ma intendo evidenziare un problema che considero culturalmente corresponsabile dello scempio del territorio italiano perpetrato negli ultimi decenni.
Asserire, come fa Boero, che il paesaggio è la percezione di una struttura, di un’anatomia distinta dalla fisiologia rappresentata dagli ecosistemi, oltre che a sorprendere visto il profilo della fonte, significa disconoscere l’art. 1 della Convenzione Europea del Paesaggio ratificata dall‘Italia nel 2006 che definisce il paesaggio “…una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.” Per la C.E.P. il paesaggio è dunque la percezione di un sistema dinamico che ha agito nel tempo e agisce nel presente dando forma al territorio. Quindi non un’anatomia distinta dalla fisiologia, bensì la percezione di quella fisiologia che nella metafora di Boero rappresenta gli ecosistemi. Non l‘ambiente in sé bensì la percezione dei suoi caratteri. Una percezione che ovviamente è il frutto della conoscenza che si ha di quanto stiamo osservando e sarà tanto più significativa quanto maggiore sarà la consapevolezza dell’osservatore.
Dove sta l’importanza di questo concetto nell’approccio alle problematiche ambientali? Si prenda, ad esempio, il caso delle politiche green riferite agli impianti di energia eolica. Il paesaggio, attraverso i suoi segni, ci può informare se un impianto in un determinato luogo è parte di un (eco)sistema locale che ha sposato effettivamente un approccio green o se invece risponde ai criteri che sono alla base di un qualunque sfruttamento intensivo del territorio, come massima produttività per superficie disponibile, alto profitto aziendale ma scarso ritorno economico in loco, danni alla popolazione e all’ecosistema locale, compromissione di sviluppo futuro e/o alternativo del territorio. Nel secondo caso sarà solo uno dei modi in cui le multinazionali usano un prodotto ambientalmente sostenibile per perseguire le proprie politiche che di green hanno veramente poco, operando così una mera operazione di greenwhasing della propria immagine senza impegnarsi in possibili soluzioni alternative (decentramento produttivo, sistemi di rete intelligenti, ecc.).
Ma la conseguenza più importante della definizione della C.E.P. è quella di dare la dignità di esprimere un paesaggio anche ai territori non rilevanti dal punto di vista estetico o storico, e persino a quelli degradati. Secondo il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio sono considerati beni paesaggistici, e come tali meritevoli di tutela, solo località di elevato pregio o rarità ambientale, siti e edifici storici di rilevante importanza culturale, nonché, cito testualmente la legge, “le bellezze panoramiche e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze.”
Questa enunciazione, che deriva dalla visione umanistica in cui il paesaggio viene di fatto considerato sinonimo di panorama, ha implicitamente privato i territori che non rientrano nelle suddette categorie di un qualunque valore culturale o ambientale aprendo la strada al loro scempio, poi puntualmente perpetrato. Una visione, quella umanistica, che se ci fa apprezzare la bellezza dei nostri luoghi e le opere dei grandi pittori paesaggisti, ci nega l’accesso al valore semiotico del territorio, bello o brutto che sia, con tutto ciò che ne consegue nel rapporto che abbiamo con esso, e non necessariamente da specialisti ma da persone comuni che vogliono essere consapevoli del territorio, e quindi anche dell’ambiente, in cui vivono.