Eduardo Galeano sosteneva che l’utopia servisse per non smettere mai di camminare, essendo sempre là, in agguato all’orizzonte. «Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi. Cammino 10 passi e l’orizzonte corre 10 passi. Per tanto che cammini non la raggiungerò mai…».
Utopia significa “luogo che non esiste“, insomma un ideale di speranza, un progetto che non può avere attuazione. In un mondo concreto, come il nostro mondo ideale, più che di utopia avremmo bisogno – abbiamo bisogno – di sitopia, di un luogo del cibo (dalla crasi delle parole greche sitos, cioè cibo, e topos, cioè luogo). Un’utopia possibile.
Perchè il cibo modella le nostre vite, oggi come ai tempi degli abitanti delle caverne, eppure siamo sempre meno in grado di attribuirgli il giusto valore, riconoscendo le “cose” di cui è composto. «Sitopia è essenzialmente un modo di vedere il mondo. E’ di gran lunga il mezzo più potente che abbiamo per pensare e agire insieme, per rendere il nostro mondo un posto migliore» dice Carolyn Steel nel suo profondo saggio “Sitopia. Come il cibo può salvare il mondo“.
Un tuffo nei meandri dell’esistenza, un trattato storico e filosofico che utilizza l’elemento cibo come medium per riflettere sull’hic et nunc e sul profumo del futuro, per liberare la mente e porre domande: qual è il costo reale del cibo che mangiamo? Sappiamo quanto incida in termini sociali acquistare cibo puntando al solo risparmio? Ci è chiaro che lo sfruttamento delle risorse naturali primarie per la produzione del nostro cibo indebolisce la capacità di resilienza dell’intero nostro sistema di vita in un pianeta che è uno e uno solo ed è già popolato da quasi otto miliardi di bocche che si aprono ogni giorno e più volte al giorno? Quando e perché abbiamo perduto il vitale rapporto tra città e campagna, tra suolo e tavola?
Attorno al cibo dimorano tutti i gap e tutte le chance di una esistenza felice, se solo fossimo capaci a pensarci. «Viviamo oggi in un villaggio globale in cui Google è il mercato, Amazon l’emporio, Facebook i giardinetti e Twitter i pettegolezzi di paese. In un batter d’occhio, attività e mestieri che una volta si potevano svolgere soltanto in determinati luoghi delle città, possono essere eseguite con un movimento del pollice da un deserto, in mezzo all’oceano o in aereo. Cambiando le modalità con cui produciamo, trasportiamo, commerciamo, cuciniamo, condividiamo e valorizziamo il cibo, potremmo trasformare i nostri paesaggi, case, luoghi di lavoro, vita sociale e infine la nostra impronta ecologica».
Rivoluzione piena, dunque. Con il cibo protagonista di una coscientizzazione che diventa visione pura da tabula rasa e poi ribellione non astratta. Tutto, dal nostro ambiente alle nostre società ai nostri corpi, è influenzato dal nostro rapporto con il cibo, che ci ha preceduto, ci anticipa, ci sostiene.
Carolyn Steel costruisce un paradigma da cui è difficile non provare sintonia totale e che ripercorre le tappe di una storia degli esseri umani ritmata dal cibo, dalla fame, dall’edonismo, l’ingordigia, la passività. Luogo dell’individuo ma anche della collettività.
Vi ritroviamo in un sol colpo Epicuro e Burger King, Locke e il Piano Marshall, Adamo e Adam Smith, Mauss e Schumacher, Gilgamesh e Malthus, Darwin e Carlin Petrini.
«Quando la crescita economica non sarà più la forza trainante delle nostre vite, avremo bisogno di paesaggi che ci permettano di prosperare in altri modi, accrescendo il senso e la ricchezza di ciò che facciamo. Poichè la terra e il lavoro resteranno i nostri soli patrimoni, dovremo fare un uso efficace di entrambi. In breve, dovremo immaginare di nuovo il paesaggio come una tela, sulla quale dipingere la prosperità dell’uomo» scrive Carolyn Steel.
Più che un’ipotesi vorremmo augurarci descriva un punto di arrivo per il nostro transatlantico. Titanic il suo nome.
Ma le storie non hanno sempre il medesimo epilogo. Per fortuna…
Recensione di Alessandro Mortarino.
Sitopia. Come il cibo può salvare il mondo
di Carolyn Steel
Edito da Piano B
2021, 434 pagine
Euro 20,00