di Alessandro Camiz.
Ogni volta che usciamo dalla città il nostro sguardo viene catturato dalla poesia dei luoghi che attraversiamo. Seppure con lentezza, vaste zone verdi del nostro Paese, un tempo deputate ad aree boschive o riservate alla coltivazione, sono state soppiantate da parchi eolici o da impianti fotovoltaici, una nuova presenza che ha inevitabilmente inciso sulla morfologia del territorio e sul paesaggio.
Se considerata in una prospettiva di lunga durata storica, l’interrelazione tra città e campagna presenta un ‘carattere ciclico’. Dall’abbandono delle grandi città a seguito del crollo dell’Impero romano o al fenomeno dell’inurbamento che ha caratterizzato la rivoluzione industriale, i flussi migratori risultano essere parte integrante di un antico rapporto duale tra città e campagna, due poli di un processo di migrazione che segue ‘cicli territoriali’. Inoltre, il lento processo di costruzione del paesaggio è anche esso funzione della crescita della città e con l’incremento demografico diviene necessaria «quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale» (Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961). Negli ultimi venti anni è intervenuta una nuova forma di infrastrutturazione del paesaggio naturale, quale risultante delle politiche energetiche sinora adottate. Boschi, vigneti e uliveti, che per millenni hanno caratterizzato il nostro territorio, oltre a essere parte integrante del patrimonio storico dell’architettura rurale, sono stati sostituiti da parchi eolici e impianti fotovoltaici. Una forma di produzione energetica diffusa, sconosciuta prima della cosiddetta ‘rivoluzione verde’, avrebbe dovuto soppiantare il precedente modello centralizzato, dove la produzione – affidata alle centrali idroelettriche, termoelettriche o nucleari – prevedeva la ‘concentrazione’ dell’impianto in un unico luogo e una rete di distribuzione. Sembra quasi che la legislazione vigente non abbia però saputo interpretare appieno questo passaggio, e nella introduzione del sistema eolico e fotovoltaico, invece di fornire ogni casa dei suoi pannelli e delle sue eliche, si sia indirizzata verso la realizzazione di centrali energetiche sul territorio. Gli incentivi economici che hanno affiancato la legislazione sono finiti talvolta per andare nelle mani di pochi, che li hanno usati per costituire centrali elettriche che non solo hanno ridotto la bellezza del paesaggio, ma in alcuni casi sostituito irreversibilmente sistemi coltivi antichi di millenni.
Con la crescita e lo sviluppo della città, anziché predisporre un modello diffuso di produzione energetica, si è ‘mangiato’ il suolo agricolo sostituendolo con gli impianti. Non dobbiamo ignorare che la funzione delle coltivazioni agricole e boschive non è solo quella di produrre cibo o legname, ma di costituire presidio rispetto ai fenomeni erosivi. Riassumendo, se si rimpiazzano alberi con pannelli, a lungo termine ci troveremo a sostenere dei costi ambientali elevati per la instabilità dei versanti, costi che dovranno essere sostenuti dalla collettività, a fronte di un guadagno, quello del proprietario della centrale, individuale. Insomma, sembra quasi che la mancata lungimiranza del sistema legislativo e la sostanziale incomprensione del modello green di produzione energetica diffusa, abbia non solo comportato un danno al paesaggio storico, ma anche predisposto un meccanismo predatorio nei confronti del capitale sociale. Forse oggi, anche alla luce dei cambiamenti climatici e della crisi pandemica, dovremmo riprendere in esame un modello insediativo diffuso tradizionale, il paese, probabilmente più sostenibile di quello attuale. Piccoli agglomerati urbani e modi di produzione energetica diffusi avrebbero forse il pregio di consentirci ancora una volta di guardare con soddisfazione estetica il paesaggio e la sua storia.
Tratto da: https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/Energia_diffusa_tutela_paesaggio.html