di Paolo Piacentini.
Poco più di un mese fa è uscito per Donzelli il volume curato da Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi: Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi.
È di pochi giorni fa, invece, l’estratto da questo volume che ha proposto Avvenire in Agorà con il titolo Abbasso i “borghi”, evviva i paesi: solo così si salva l’Italia interna, sottolineando “il percorso di ricerca dell’associazione ‘Riabitare l’Italia’ con particolare attenzione alle aree interne, rurali e periferiche”, che ha prodotto “altri due volumi editi da Donzelli”.
Forte del grande rispetto verso tutti gli accademici che fanno parte di Riabitare l’Italia – associazione a cui sono fiero di appartenere – e della stima verso i tre curatori del volume, proprio per questo ritengo giusto fare una breve riflessione in merito al dibattito che si è innescato intorno al tema dei borghi.
Il dualismo borgo/paese rischia di apparire, ai non addetti ai lavori, come qualcosa di eccessivo. Sono un paesano dentro, per nascita e per cultura, e capisco perfettamente che: “Il significato proprio della parola ‘borgo’ viene così allargato a dismisura, decontestualizzato e posto in un generico passato, fuori dal tempo” e anche che “Viene così messa in scena una rappresentazione del ‘borgomerce’ impastata di ‘archeologizzazione’ e ‘medievalizzazione’, associata alle rievocazioni storiche in costume, al ‘pittoresco’ e al branding della località ‘tipiche’”, come si legge appunto nel volume.
Vorrei però che il dibattito potesse risolversi più tranquillamente, ovvero accogliendo in modo positivo le tante critiche verso una possibile deriva di turistificazione e gentrificazione rurale di molti paesi, non credendo altresì che questi processi appartengano agli ultimi recenti accadimenti.
“A questa musealizzazione patrimonialista si accompagna la calcificazione della comunità locale, rappresentata come insieme omogeneo e armonico del bel tempo che non c’è più, priva di conflitti e differenze sociali e culturali”, sottolineano Barbera, Cersosimo e De Rossi. Certo, è vero che sicuramente ci può essere stata un’accentuazione nel dibattito pubblico, soprattutto a partire dalla pandemia Covid, di una certa narrazione eterodiretta marcatamente urbano-centrica e con logiche mercificatorie, ma va ricordato che il termine “borghi” ce lo portiamo dietro dalla famosa legge Realacci e non solo: anche dalle varie associazioni di promozione turistica nate negli ultimi anni.
Ricordiamo che il “paese” era sparito da tempo nelle varie narrazioni della politica e della cultura. Non ho mai visto nella proposta Realacci, ad esempio, un distacco tra la definizione di borgo come parte integrante del territorio circostante, tanto richiamata in molti contributi del libro edito da Donzelli, e la sacrosanta visione di paese proposta dai curatori del volume in questione. La legge Realacci toccava il tema dei servizi e tanto altro e andava nella giusta direzione, peccato sia rimasta imbrigliata nelle maglie della burocrazia.
La critica più aspra viene avanzata al bando borghi del Ministero della Cultura. Sicuramente la logica del bando non risolve i problemi strutturali ma la vasta partecipazione credo che potrà comunque, in molti casi, attivare processi virtuosi che vanno nella direzione indicata dai curatori del libro.
Mi viene da proporre allora che – oltre alla critica, sempre ben accetta se costruttiva – si possa attivare una sorta di rete di controllo dal basso sui progetti che risultano finanziati. Non è un controllo facile da attuare ma può essere un’azione importante di cittadinanza attiva. Oltre al tentativo di controllare dal basso, dove associazioni o comitati più organizzati a livello territoriale lo permettono, la realizzazione dei progetti finanziati con i fondi del PNRR, sarebbe importante aprire un confronto nei territori delle aree interne anche su alcune problematiche spesso sottovalutate.
I cinque punti UNCEM (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani) sulla montagna, presentati alla politica in occasione delle prossime elezioni, sono molto importanti ma hanno aspetti da approfondire per evitare delle storture che possono ricadere nelle politiche a favore della rigenerazione dei paesi, secondo le molte linee indicate nel libro in questione.
Partiamo con l’esaminare quali sono i servizi essenziali alla luce delle molte esperienze dal basso che si stanno organizzando in Appennino, la “spina dorsale” del Paese come la definisce Paolo Rumiz , all’interno della quale ricadono la maggior parte dei borghi-paese.
La promozione dei servizi ecosistemici può dare lavoro anche nell’ambito della ricreazione di uno stato di salute globale dovuto alla pratica della Forest therapy e all’attività escursionistica, senza concentrarsi solo sulla filiera del legno? La ricomposizione fondiaria è davvero quello che serve per incentivare l’agricoltura delle aree interne o forse la cosa fondamentale è la messa a disposizione delle terre abbandonate da più di 20 anni? E ancora: le terre ad uso civico si possono dare con più facilita ai giovani, anche non residenti, con il vincolo dell’uso senza nessuna trasformazione?
Su queste domande, che vanno ad integrare i temi affrontati nel libro, si dovrebbe aprire una nuova stagione di confronto che dia più spazio alle realtà diffuse nei territori: quelle che fanno di una certa, necessaria, radicalità il punto di partenza per nuovi modelli socio-economici davvero sostenibili. Avviamo un confronto aperto.
Tratto da: https://comune-info.net/paesi-e-borghi-il-confronto-aperto