di Alessandro Mortarino.
Da tanti (troppi) anni discutiamo di consumo di suolo dividendoci tra chi lo considera un’emergenza assoluta su cui occorrono normative rigorose e chi lo ritiene un problema rinviabile. Eppure basterebbe leggere gli annuali Rapporti dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) per capire che il suolo è un elemento vitale e che nel nostro Paese ne abbiamo già consumato oltre ogni limite. Ora anche nell’astigiano si presenta un caso che potrebbe aiutarci a ragionarne in maniera pacata, soppesando pro e contro, delimitando scenari possibili. A Isola d’Asti la Giovi srl vorrebbe espandersi, ma gli oneri di urbanizzazione sono troppo elevati e l’azienda se ne lamenta, raccogliendo la solidarietà del Sindaco che sollecita la modifica delle norme regionali in materia. Siamo nel pieno del problema “culturale” (o chiamiamolo della “vision”): nuovo cemento o suolo fertile?…
La Giovi srl è un’azienda fondata nel 1987 dalla famiglia Rosso e si colloca tra le aziende leader nazionali nel settore della costruzione di apparecchiature e quadri elettrici per il comando di macchinari, rivolti principalmente a costruttori di compressori, pompe, impianti di refrigerazione, macchine da cantiere e da imballaggio, impianti alimentari, enologici e termici. In tempi più recenti ha anche aggiunto una nuova produzione di porte rapide industriali.
Al contrario di quanto sta accadendo a gran parte del tessuto industriale nazionale, l’azienda sta conseguendo buoni risultati di mercato e prosegue in una fase espansionistica, con oltre cento addetti impegnati nello stabilimento principale di Isola d’Asti (sulla statale Asti–Alba) e in un secondo insediamento in zona Piano-molini, dove l’azienda ha successivamente acquistato un capannone dismesso e avviato alcune produzioni.
Ma anche questo capannone non è risultato sufficiente per sostenere l’espansione industriale ed ecco che l’azienda decide di acquistare i terreni confinanti con l’intento di ampliare l’edificio produttivo dagli attuali 1.000 a 7.000 metri quadrati circa e la possibilità collegata di assumere un’altra cinquantina di addetti.
Terreni agricoli. In una zona in cui ben conosciamo l’alto valore di fertilità del suolo.
L’azienda ha due possibilità: chiedere al Comune una Variante al Piano Regolatore (che comporterebbe tempi lunghi e discussioni “politiche”) oppure tentare la strada della Variante parziale semplificata al SUAP (Sportello unico per le attività produttive), allo scopo di ottenere in tempi ridotti la modifica della destinazione d’uso dei terreni: da agricoli a produttivi.
Ovviamente l’azienda propende per la seconda soluzione – così come sta avvenendo da anni in tutto il Piemonte – “giocando” su uno strumento di semplificazione amministrativa che può essere adottato nei comuni in cui lo strumento urbanistico non individua aree destinate all’insediamento di impianti produttivi o individua aree insufficienti. Uno strumento abusato, purtroppo, contestato da tutte le rappresentanze del mondo ambientalista e in profondo contrasto con altri strumenti normativi come, ad esempio il Piano Territoriale Regionale (articolo 31) che indica il riuso e non la nuova edificazione come via maestra.
La strada pare spalancata, ma arriva il conteggio degli oneri di urbanizzazione: 80 mila euro da versare al Comune e 160 mila euro alla Regione. Troppi per l’azienda che si lamenta per gli oneri straordinari derivanti dalla pratica SUAP e minaccia la rinuncia all’espansione e ai nuovi posti di lavoro.
Su “La Stampa” il Sindaco di Isola d’Asti afferma: «Capiamo che il consumo del suolo deve essere preservato, ma come amministrazione siamo favorevoli agli investimenti degli imprenditori, perché portano benefici a tutto il territorio e nuovi posti di lavoro. Da parte nostra siamo disposti ad andare incontro all’azienda scorporando e trasformando gli 80 mila euro di oneri comunali in opere che l’azienda può realizzare. Credo però si debba mettere mano alla normativa del 2016 che è disincentivante e invalidante».
Qui sta il punto su cui invitiamo a riflettere.
Abbiamo un terreno agricolo.
Da un lato c’è un’azienda che vuole distruggerlo/cementificarlo ma offrendo, però, occupazione a una cinquantina di persone (contratti a tempo indeterminato oppure?…) .
Dall’altro lato c’è l’avvertimento dell’ISPRA, che ci dice che ogni metro quadrato di suolo perduto ha un costo per tutta la comunità.
Un costo ecosistemico causato dalla perdita dei servizi vitali che un suolo impermeabilizzato non è più in grado di fornire (stoccaggio e sequestro di carbonio, qualità degli habitat, produzione agricola, produzione di legname, impollinazione, regolazione del microclima, rimozione di particolato e ozono, protezione dall’erosione, regolazione del regime idrologico, disponibilità di acqua, purificazione dell’acqua).
Ma anche un costo economico/finanziario, che i ricercatori dell’ISPRA calcolano pari a circa 100.000,00 euro per ciascun ettaro di suolo impermeabilizzato, ovvero una media di 10 euro per ogni metro quadrato da contabilizzare nell’anno in cui il nostro pezzo di terra viene antropizzato e per tutti gli anni successivi.
Da che parte stiamo? Preferiamo sostenere l’interesse economico del singolo (l’azienda) con le sue ricadute sociali/occupazionali oppure assumiamo l’onere di (iniziare a) non barattare neppure un momento di una indispensabile lotta al cambiamento climatico, al sostegno di una sovranità alimentare perduta, alla tutela di una biodiversità che si preoccupi del futuro di una intera razza e non all’economia dei prossimi due minuti? Oppure vogliamo cercare una terza via: dire “NO” all’espansione su suolo libero ma aiutare l’impresa – addirittura agevolarla – nel reperire una soluzione di riuso in zona? (quanti capannoni vuoti ci sono nel raggio di pochi chilometri…?).
A Isola d’Asti come in Amazzonia, se mi permettete il paragone.
E’ chiara la posta in gioco? E a quale gioco vogliamo iscriverci?