di Paolo Pileri
Articolo tratto da Altreconomia
Ogni Regione ha a disposizione una superficie urbana da recuperare così ampia che potrebbe non consumare un centimetro quadrato di suolo per cinque anni. L’incrocio tra dati Ispra e Istat, questi ultimi non aggiornati da oltre dieci anni, certifica l’urgenza di investire sul patrimonio esistente. Che cosa faranno politici e urbanisti?
Tra le statistiche che l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) elabora vi è anche quella sulla superficie degli edifici non utilizzati (Munafò, 2023). Il conteggio non può che affidarsi a una base-dati vecchia dell’Istat sull’edificato italiano (2012), non aggiornata, probabilmente per mancanza di fondi.
Apriamo una parentesi che è già una proposta per la politica: finanziare la conoscenza statistica degli immobili e del loro stato d’uso così da avere più contezza del da farsi per risparmiare suolo. Se la politica non vuole fare questo investimento è chiaro a tutti che non vuole dare evidenza a questo patrimonio invisibile e quindi non vuole mettersi dalla parte della tutela dei suoli o del contenimento del consumo di suolo e preferisce, senza dirlo apertamente, continuare a foraggiare la cementificazione, magari con l’ipocrisia di qualche proclama green.
Chiusa la parentesi, torniamo al dato Istat del 2012 che è sorprendente: in Italia la superficie degli edifici non utilizzati è pari a 248,7 chilometri quadrati, qualcosa come tre volte la superficie urbanizzata di una città come Torino, ma abbandonata ai fantasmi. Ora proviamo ad associare questo dato, pur con tutti i suoi limiti, a quello di consumo di suolo annuo regionale del 2022, l’ultimo anno disponibile. Quel che ne esce è sorprendente.
Mediamente ogni Regione ha a disposizione una superficie urbana da recuperare talmente ampia che potrebbe non consumare un centimetro quadrato di suolo per cinque anni. La Lombardia per 3,2 anni potrebbe occuparsi solo di recupero, il Lazio per 2,8, la Liguria per 14,5, l’Abruzzo per 7,3, la Calabria per 17,8, il Trentino-Alto Adige per 1,6, l’Umbria per 6,2, la Valle d’Aosta per 6,9 e così via.
È pur vero che molti di quegli immobili non soddisfano i requisiti della domanda attuale e non c’entrano nulla con le infrastrutture e gli impianti che alcuni reputano necessari (ma è tutto da dimostrare e loro non lo fanno mai), ma quei rapporti numerici sono talmente alti che tolgono il fiato a chiunque e mostrano che esiste in Italia una riserva di urbanizzato enorme della quale non solo non ci si cura, ma che sicuramente potrebbe ridurre il consumo di suolo agli sgoccioli. Con questi rapporti c’è un ampio margine anche per tranquillizzare buona parte delle ansie dei costruttori e dei professionisti del mattone.
Quindi, ancora una volta la domanda casca sulle spalle dei politici e pure degli urbanisti loro consulenti e consiglieri: che cosa volete fare del suolo italiano? Ancora terra di caccia per il cemento facile? Questi dati non sono sufficienti a convincere voi e chiunque che stiamo massacrando quel che rimane del suolo italiano pur avendo in tasca un patrimonio edilizio abbandonato che grida vendetta? Oppure volete dare retta al marketing immobiliare che si è inventato le città attrattive (Milano è campione di rendimenti immobiliari e la sua guida politica da anni aiuta queste rendite a crescere) per concentrare lì altri consumi di suolo redditizi e spopolare e degradare altrove?
Peraltro buona parte di questo edificato abbandonato, se non tutto, è già servito da strade, fognature, acquedotti, rete elettrica ed energetica e quindi non avrebbe neppur bisogno di investimenti infrastrutturali di supporto e neppure andrebbe a pesare sui futuri bilanci comunali o regionali per le necessarie opere di manutenzione. Lavorare al solo recupero dell’esistente è la mossa vincente e urgente. Continuare a non considerarla per dare voce alle pretese di costruttori e di sviluppatori immobiliari rapaci che vogliono guadagnare il più possibile disinteressandosi di impatti ambientali, sociali e futura spesa pubblica è una grave inadempienza politica.
Quel che c’è da fare subito è l’aggiornamento puntuale di quella vecchia base-dati sugli edifici perché occorre sapere con più esattezza quanti sono gli immobili, la tipologia, lo stato d’uso e di conservazione e soprattutto la localizzazione e le infrastrutture attorno. Dopodiché occorre un lavoro di matching che una agenzia pubblica (tipo un Demanio riformato ma con una sensibilità ambientale ed ecologica che ancora gli manca) deve mettersi a fare. Il tutto avrà successo solo se dall’altra parte, nel frattempo, si sarà approvata e definita una legge che ferma il consumo di suolo (magari anche solo per i prossimi cinque anni, una specie di patto per il suolo, come il patto dei sindaci di anni fa) e si consente di cancellare le troppe superfici ancora edificabili, stabilite anni e anni fa per pura ingordigia urbanistica, ma ancora là a fare danni nei piani urbanistici. A quel punto il mercato dovrà per forza guardare al patrimonio esistente. Fintanto invece che ci saranno campi verdi o gialli a disposizione, il recupero rimarrà sempre al palo pur con tutti i sussidi che ci si può immaginare.
Per chi non lo ha capito, questa è una proposta. Non si dica che i difensori del suolo criticano e basta. Non ci si limiti a fare silenzio e passare ad altro. Se qualcuno davanti a questi dati non è d’accordo con quanto qui proposto, ben venga, ma è vietato cavarsela alzando le spalle o bofonchiando qualcosa di spocchioso o asserendo dal proprio podio di eletto che questa proposta è totalmente inattuabile perché non gli piace: porti delle convincenti argomentazioni per continuare ad affogare nel cemento come ci ha dimostrato il rapporto Ispra del 2023.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022).