Milano è davvero la città più vivibile d’Italia? A leggere le classifiche sì, a guardare con attenzione i dati forse no. Merito delle narrazioni entusiastiche e compiacenti sulla città, capaci di alterare i fatti e negare i problemi. Una risposta di Lucia Tozzi al pezzo di Gianluca Nativo
di Lucia Tozzi
Articolo originale su Lucy sulla Cultura
Niente è più reazionario che ridurre le questioni politiche a “scontro di narrazioni”, come se il piano materiale non esistesse. Purtroppo questa idea, oggi parecchio dominante, è alimentata da politici di destra e sinistra, dalle migliaia di scuole di scrittura creativa, dai manuali di neuromarketing, dai dipartimenti di psicologia comportamentale, dagli influencer, dagli operatori sociali e, orribilmente, dai giornali, soprattutto nelle pagine culturali ed economiche. Per risolvere i problemi basta “cambiare la narrazione” e quelli, puff, spariscono. Milano è in crisi? Basta risollevare il morale delle truppe, trovare la metafora giusta come nel film aspirazionale su Mandela presidente che sconfigge l’apartheid ancora forte in Sudafrica facendo giocare i neri a rugby, lo sport dei bianchi. O trovare l’eroe, come il cecchino portentoso che col suo esempio cambia le sorti della battaglia di Stalingrado e del mondo – un film più spiritoso, ma pur sempre patetico.
La giunta milanese ha trovato una sorprendente classifica, che a dispetto dell’aria velenosa, delle proteste che si moltiplicano, delle inchieste giudiziarie sugli abusi, le conferisce il titolo di città con la migliore qualità della vita. Ora, le classifiche sulla qualità della vita sono, per loro stessa natura, assurde: quantificare la qualità è la più arbitraria e scivolosa delle operazioni, a partire dalla scelta dei parametri e dei metodi per misurarli, che non metterebbero d’accordo neanche tre persone intorno a un tavolo, figurarsi gli abitanti di una città. Questa lo è in modo particolare, perché guardando i suoi posizionamenti suddivisi per sottocategorie si evince chiaramente che Milano si piazza all’ultimo posto per superamento di PM 2,5-10, va malissimo ovviamente per l’aumento dei prezzi al metro quadro, è in posizione media o medio bassa per natalità, sicurezza, sicurezza sul lavoro, e medio alta (ma non prima) solo per posti letto in ospedale in rapporto alla popolazione – superata da Catanzaro –, occupazione e titoli di studio. Dati, questi ultimi, che oltretutto sono viziati all’origine, dal calcolare come parimenti occupati un professore universitario a vita e un precario che racimola duecento euro al mese, e rilevando la percentuale di laureati solo nella fascia 25-39, cioè in quel ceto di abitanti che in gran parte è stata “attratta”, o “strappata” da altre città per cercare lavoro.
Qualunque sia l’alchimia che ha potuto fare di questi dati mediocri numeri da primato, il quadro pur edulcorato che ne risulta è quello di una città “ultima spiaggia”, dove si è costretti a venire o passare per trovare un lavoro purchessia, ma in cui è difficile e anche poco desiderabile stabilirsi.
Utilizzare questa triste e aleatoria classifica per sostenere, come hanno fatto tanti giornali e media, cheil vento è cambiato, che possiamo lasciarci alle spalle la moda di parlare male di Milano come se si trattasse di liberarsi della nefasta ossessione per il ceruleo della stagione passata, è espressione della miseria ideologica in cui siamo immersi.
Dati ben più cogenti di quelli raccolti da queste agenzie di comunicazione testimoniano che questa è la capitale italiana della disuguaglianza crescente, della concentrazione della ricchezza, della facilitazione degli interessi immobiliari e finanziari, della privatizzazione e distruzione dei servizi pubblici. Ricerche universitarie, report immobiliari, studi indipendenti, inchieste giornalistiche, picchetti antisfratto, denunce dei comitati, tende degli studenti e le recenti inchieste giudiziarie dimostrano in modo difficilmente contestabile che Milano è un luogo che costruisce lusso e privilegio sottraendo risorse e beni comuni alle fasce meno agiate. Dirada il trasporto pubblico capillare nelle periferie per servire il centro, chiude piscine pubbliche a basso costo trasformandole in spa private, trasferisce il patrimonio librario delle grandi biblioteche a fondazioni, cede aree verdi a fondi immobiliari che le distruggono tagliandogli pure oneri e costi, lascia degradare le case popolari per poi venderle o sostituirle con case per ricchi. Questi sono fatti, non narrazioni. Sono forme di ingiustizia misurabili e misurate, ormai presenti in migliaia di ridondanti documentazioni.
La narrazione è invece quella patina infida che occulta questi fatti, quella che altera i dati, quella che al limite, quando l’evidenza non si può più negare, naturalizza questi problemi come esternalità negative del successo, e/o come problemi comuni a tutte le città del mondo: “Signora mia, di che si lamenta, sapesse quanto costa una stanza a New York o a Parigi”. E che, per legittimare le ragioni della rendita e della valorizzazione, interpella direttamente gli abitanti più affluenti, citando le loro manifestazioni di benessere come una prova schiacciante contro chi protesta.
Come è successo nel caso di Cascina Merlata: un servizio tv ha descritto il quartiere come un progetto mirato alla pura massimizzazione della rendita a dispetto della socialità degli abitanti, suscitando la reazione sdegnata di un gruppo di condomini, offesi per il danno di immagine (o forse preoccupati per l’eventuale danno che la cattiva immagine avrebbe comportato per il proprio investimento). L’episodio è stato brandito come una clava contro la critica urbana: sono tutte astrazioni ideologiche, gli abitanti sono felici. Nessuno si è posto la domanda: “Si, ma QUALI abitanti”? A Cascina Merlata, quelli degli appartamenti di lusso – mentre quelli delle case meno care languono ai piani bassi, all’ombra degli altri palazzi, stretti tra i cancelli e i muri opprimenti, terrorizzati alla sola idea di prendere parola.
Probabilmente è per questo che Milano resta un modello così caro al fronte del liberalismo progressista: non perché resiste a qualsiasi narrazione – decisamente no – ma perché ha messo in piedi un apparato comunicativo che si ostina, con una pervicacia maggiore di quanto si potesse immaginare, a non arrendersi a nessuna emersione del reale e del politico. Milano è il baluardo nazionale della negazione della realtà: se ci sono le buche per strada non è a causa della scelta politica di risparmiare sulla manutenzione, è per il climate change. Se nessuno riesce a pagare l’affitto con lo stipendio, è colpa delle regole antiquate che non permettono di attuare le gabbie salariali. Se le case popolari non vengono assegnate, la responsabilità è del governo ladro. Se gli attivisti senza sosta cercano di ostacolare la densificazione e il consumo di suolo, è perché sono dei conservatori luddisti. Se decine di inchieste giudiziarie rivelano che a Milano si costruiscono grattacieli senza seguire le regole urbanistiche in uso nel resto d’Italia, risparmiando sulle tasse a scapito delle casse pubbliche e dei servizi ai cittadini, Milano pretende una legge che stravolga le regole urbanistiche di tutta Italia, pur di dimostrare di avere ragione e continuare ad autodistruggersi.
Forse invece di concentrarci sui negazionisti climatici fan degli idrocarburi faremmo meglio a concentrarci sui danni prodotti dei negazionisti alla milanese. Il meteorite più grosso sta cadendo da quella parte.
Lucia Tozzi è studiosa di politiche urbane e giornalista freelance. Il suo ultimo libro è L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (Cronopio 2023)