Blitz della Lega sul paesaggio italiano

La Lega ha presentato un emendamento – poi ritirato – alla Legge Cultura, con il quale vorrebbe rendere non vincolante il parere delle Soprintendenze in materia paesaggistica dando l’ultima parola ai sindaci. Un colpo mortale alla tutela. Il vero problema, tipicamente italiano, è la mancanza di pianificazione

Riportiamo l’articolo di Giuliano Volpe, pubblicato da Huffingtonpost.it, il 31.01.2025

TUTTI CON GIULI, SENZA SE E SENZA MA, CONTRO IL BLITZ DELLA LEGA SUL PAESAGGIO ITALIANO

Ci stanno riprovando a portare l’assalto al paesaggio italiano. O almeno a quel che resta, vista la velocità del processo di cementificazione e di consumo di territorio (2,4 metri quadrati ogni secondo!). La Lega, che cerca di attribuirsi il ruolo di partito più trumpiano e iperliberista d’Italia, ha presentato un emendamento alla Legge Cultura con il quale vorrebbe rendere non vincolante il parere delle Soprintendenze in materia paesaggistica dando l’ultima parola ai sindaci. Emendamento poi ritirato e sostituito da un disegno di legge da discutere con gli altri alleati di governo. Sarebbe un colpo mortale alla tutela. Sappiamo bene che un sindaco, anche il più colto e sensibile ai temi della tutela, sarebbe posto sotto una pressione forte e diretta di interessi speculativi e farebbe dunque molta fatica a bloccare interventi di varia natura anche su aree tutelate.

Il vero problema, tipicamente italiano, è la mancanza di pianificazione. Basti pensare che i Piani Paesaggistici Territoriali Regionali (redatti ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che è del 2004) sono ancora solo cinque. Ha aperto la pista la Puglia, seguita da Toscana, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia e Lazio, mentre la Sardegna ne ha uno solo per le coste.

Le redazioni dei Piani sono state occasioni straordinarie di condivisione, di dialogo, anche di compromesso, in un confronto multidisciplinari tra tanti specialisti ma soprattutto con enti locali, mondo delle imprese, del commercio, dell’agricoltura, con le associazioni e i cittadini, proponendo una idea di tutela attiva e progettuale.

Da molti anni di piani paesaggistici non si parla più. Tutto fermo. Negli anni passati era previsto presso il Ministero della Cultura (che allora si chiama dei beni e attività culturali e del turismo) un sottosegretario, l’attivissima Ilaria Borletti Buitoni, ex presidente nazionale del FAI, con una specifica delega sul paesaggio, che si avvaleva di una qualificata Segreteria tecnica per la qualità del paesaggio della quale facevano parte persone del livello di Angela Barbanente e Anna Marson, le due urbaniste che come assessore regionali in Puglia e Toscana avevano dato vita a ottimi piani paesaggistici. Nel Consiglio superiore “beni culturali e paesaggistici” discutemmo approfonditamente i cinque Piani approvati in quegli anni. Si giunse a organizzare nel 2017 gli Stati Generali del Paesaggio, di cui sono stati pubblicati corposi Atti, e a elaborate una Carta del Paesaggio, intitolata all’indimenticabile Giuseppe Galasso, autore delle prime misure di tutela paesaggistica. Fu istituito un Premio Nazionale del Paesaggio.

Anche i Piani Urbanistici Generali, che dovrebbero tener conto dei Piani Paesaggistici Regionali, latitano. In un simile contesto trasferire la competenza ai Sindaci significa, tra l’altro, privarsi di una necessaria visione d’insieme territoriale. Non si possono autorizzare interventi edilizi in un territorio comunale e impedirli in quello vicino: non solo sarebbe il caos e si svilupperebbero ulteriori conflitti, ma si snaturerebbe il paesaggio che ha una sua organicità ben oltre i limiti amministrativi municipali.

Questo colpo di mano leghista ci costringe a una contrapposizione e credo che questo sia un grave errore. Bisognerebbe invece confrontarsi liberamente, riflettere in maniera laica, cercare soluzioni condivise e partecipate, com’è nello spirito delle due Convenzioni del Consiglio d’Europa sul Paesaggio (che fu presentata non a caso proprio in Italia, a Firenze nel 2000) e del valore del patrimonio per la società (Faro 2005), entrambe ratificate dal nostro Parlamento (e poi messe in un cassetto e assai poco applicate.

Bisognerebbe essere onesti nell’affrontare questi temi oltre le posizioni manichee. La tutela purtroppo è ancora sentita in larghi settori della società non come la cura di un bene comune ma come un impedimento allo sviluppo economico, per gli ostacoli, i ritardi, i mille problemi che pone in occasione di lavori edili o agricoli, di costruzione di infrastrutture, di trasformazioni del territorio, a volte – bisogna ammetterlo – anche per improprie ‘esagerazioni’, non giustificate dalla legittima e sempre necessaria azione di conoscenza e tutela del patrimonio.

Bisognerebbe ribaltare questa immagine, modificando la percezione diffusa del patrimonio culturale, da ‘problema’ a grande ‘risorsa’ per il Paese e per il suo sviluppo sano. Ed è necessario, altresì, affermare, nella stessa comunità degli specialisti dei beni culturali, l’idea che le risorse culturali sono anche risorse economiche perché contribuiscono al ‘benessere’ e alla ‘qualità della vita’. Anche per questo è sempre più necessario misurare il valore sociale ed economico del patrimonio culturale, perché tale ‘valore’ può rappresentare la misura di quanto sia importante il patrimonio culturale per la società italiana. Mi limito a un solo esempio: il nostro Paese sta conoscendo uno sviluppo enorme del turismo e non c’è alcun dubbio che la peculiarità tutta italiana che può e deve caratterizzare la nostra offerta turistica è la cultura, con l’immenso patrimonio di beni e di attività culturali, la musica, il teatro, le arti, e soprattutto con il paesaggio italiano. Vogliamo, quindi, danneggiare questo patrimonio che oggi rappresenta quasi il 20% del nostro PIL?

Dopo aver dibattuto lungamente sul ‘come’ bisognasse tutelare e sul ‘chi’ dovesse occuparsene, l’attuale scenario culturale italiano ed europeo ha ben chiaro che la reale durabilità/sostenibilità dei beni si gioca sulla capacità di spiegare il ‘perché’ conservare, il ‘per chi’ farlo, e sul potenziale ‘valore’ dei beni culturali e paesaggistici anche come veicolo di crescita economica e sociale e di miglioramento diffuso della qualità della vita.

I paesaggi rappresentano l’identità profonda e complessa dei luoghi e delle comunità, un patrimonio il cui valore rischia di essere sempre più ignorato dalle stesse comunità locali, che stanno subendo profondi cambiamenti e subiscono gli effetti della globalizzazione. Una ridotta consapevolezza e percezione del valore è alla base di cambiamenti irrispettosi e distruzioni di paesaggi storici. Ecco perché andrebbe sviluppata quella che Alberto Magnaghi ha definito “coscienza di luogo”.

Premessa irrinunciabile per mettere tutti, o almeno il numero più ampio di persone, nelle condizioni di percepire il valore del patrimonio è la conoscenza, grazie all’educazione al patrimonio, alla formazione a partire dai primi anni di vita, alla comunicazione, alle nuove forme di gestione. Bisogna che tutti, o almeno il maggior numero di persone, considerino la tutela del paesaggio come qualcosa di “utile”, al di là della insopportabile retorica della Bellezza. Sarebbe necessario un profondo ripensamento del rapporto tra cittadini e patrimonio. Compete al Ministero della Cultura e a tutti gli specialisti contribuire a modificare la percezione diffusa del patrimonio culturale come grande ‘risorsa’ per il Paese e per il suo sviluppo sostenibile. Serve una grande alleanza con i cittadini. Non basta, però, modificare le norme. È necessario promuovere un cambio di mentalità, che non può che partire ‘dal basso’.

I padri costituenti ebbero la straordinaria visione di inserire nell’articolo 9 della Costituzione, all’indomani del disastro della guerra e in una Italia tutta da ricostruire, la tutela del paesaggio. E lo fecero attribuendo questo compito alla Repubblica e non già solo allo Stato, ma alla Repubblica, cioè a tutte le istituzioni pubbliche e all’intera res publica, intesa come comunità dei cittadini. Ecco perché è sempre più necessario promuovere azioni di tutela condivisa, sociale, del paesaggio, come indicano le due convenzioni europee già richiamate.

L’articolo 9 peraltro utilizza, caso raro nella Costituzione, la parola Nazione, per sottolineare l’unitarietà del patrimonio e del paesaggio (quanto è utile questo richiamo in un momento di rischio di autonomia differenziata anche nel campo del patrimonio culturale!). Commentando l’articolo 9 un grande giurista come Alberto Predieri definiva «il paesaggio … la forma del paese, … linguaggio, comunicazione, messaggio, terreno di rapporto fra gli individui, contesto che cementa il gruppo».

Il ministro Alessandro Giuli ha subito manifestato una netta opposizione all’emendamento della Lega e bisogna sostenerlo con forza, al di là di ogni schieramento, senza se e senza ma; c’è, infatti, da augurarsi non solo che il ministro continui a tenere ferma la sua posizione ma anche che colga l’occasione per riprendere quel lavoro, interrotto da alcuni anni, sulla pianificazione paesaggistica e sulla tutela condivisa, partecipata, attiva del principale patrimonio d’Italia, il nostro paesaggio.