Articolo di Manlio Lilli pubblicato su Il Fatto Quotidiano.it
“L’abbiamo ricoperta di tangenziali, parcheggi, supermercati, campi da arare, cave, acciaierie, sbarrata con cancelli, camuffata con cento altri nomi, presa talvolta a picconate peggio dell’Isis. Abbiamo lasciato che quattro quinti dei monumenti del tratto romano finissero in mano ai privati“. In queste parole di Paolo Rumiz, nell’incipit ad Appia, il libro sulla strada più celebre dell’antichità classica, c’è la sintesi di un viaggio d’altri tempi. Alla ricerca di quel che rimane di una delle più grandi opere del passato.
Un reportage (unico nel suo genere) nell’Italia minore che ha prodotto anche una bella serie di immagini. Sono loro le protagoniste de L’Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi, la mostra fotografica aperta fino al 18 settembre al Parco della Musica, a Roma. Un’occasione insperata per soffermarsi, in tempi nei quali s’insegue la velocità. D’altra parte è inequivocabile la fotografia che apre l’allestimento. Ci sono i piedi di Rumiz e dei suoi compagni di viaggio. Protagonisti di un’attraversata epica. Tra paesi e città. Tra persone e animali. Legalità e abusivismo. Soltanto chi ha avuto la sorte di perlustrarla, a piedi, un tratto dopo l’altro, scavalcando piccoli corsi d’acqua, salendo i colli e poi ridiscendendoli, può, credo, capire appieno l’impresa di quegli esploratori moderni.
Soltanto chi l’ha ricercata nel tratto forse più difficile, quello che usciti da Roma raggiunge i Colli Albani e poi la piana pontina, può apprezzare davvero la performance. Da Santa Maria delle Mole ad Ariccia, da Genzano a Lanuvio e da Velletri a Cisterna di Latina, la via ha subito ogni serie di soprusi. Non gli unici, certo. Ma indubitabilmente tra i più orrendi. Troppo spesso colpevolmente impuniti. Anche per questo, a ragione Rumiz può affermare che “Questo libro ne offre, per la prima volta, la mappatura completa. Per dovere civico, prima che per letteratura”.
Conoscere la via Appia, e quindi tutelarla, è un dovere civico. Sembrerebbe scontato. Sfortunatamente non lo è.
Quanto è stato documentato fin’ora, anche in pubblicazioni di riconosciuto carattere scientifico, non ha impedito distruzioni, obliterazioni, appropriazioni, abbandono e degrado. Si è continuato a procedere come se non si avesse alcuna conoscenza di quel che c’era. Le amministrazioni comunali, nei cui territori la via passa, non sempre se ne sono curate. Quasi sempre evitando di investire la sia pur minima risorsa. Non soltanto per la sua manutenzione ma addirittura per la sua salvaguardia, evitando di farne conoscere i resti, di predisporre una qualsiasi segnaletica.
“La via Appia unisce territori in cui non arrivano turisti stranieri, rivaluta il Mezzogiorno, recupera un patrimonio archeologico unico. Crediamo nel tema dei percorsi, per il turismo sostenibile, lento, di rivalutazione dei luoghi meno conosciuti. In italia stiamo investendo nel Mezzogiorno. E l’Appia tiene insieme tutte queste cose”, ha detto il ministro Franceschini nel settembre 2015. Poi, a maggio, l’annuncio dello stanziamento di venti milioni di euro per il progetto dell’Appia, per il recupero dell’intero tracciato. Non solo del tratto romano che “diventerà uno dei musei e parchi archeologici dotati di autonomia, il cui direttore verrà scelto con una selezione internazionale. Avrà uno statuto, un bilancio e potrà operare molto più agevolmente”.
Risorse che produrranno, nelle intenzioni, molto. Un logo dedicato al cammino, il posizionamento dei cippi miliari lungo il percorso, un sito internet e una app dedicati, la copertura di una rete wireless, la pulizia e la messa in sicurezza del cammino, la cartellonistica informativa e il restauro di beni presenti lungo il tracciato. Contemporaneamente, anche una nuova gestione per la strada di Cederna. Che si può volere di più? Temo che saranno in molti ad essere soddisfatti. A pensare che l’Appia, nel suo complesso, possa finalmente uscire dalla marginalità nella quale si trova. Saranno in molti a pensare che la Villa dei Quintili e Capo di Bove, il tratto che da Cecilia Metella arriva fino all’altezza di via dell’Aereoscalo-via di Fioranello, resuscitati grazie agli sforzi di Rita Paris, ne beneficeranno ulteriormente.
Il turismo crescerà, lo dice Franceschini. La via Appia che verrà ha già il suo modello di riferimento. La via Francigena. Tutto legittimo, ci mancherebbe. Semmai, a destare qualche preoccupazione è l’idea che il direttore del parco dell’Appia “potrà operare molto più agevolmente”. Non perché questo sia un male di per sé, ma piuttosto perché sembra alludere ad operazioni nelle quali il cosiddetto marketing non contemplerà, se non marginalmente, l’aspetto più specificatamente archeologico. Che l’Appia, nella sua interezza, debba riemergere, nessun dubbio. Anzi. Ma che la rinascita possa contemplare un suo utilizzo commerciale è da scansare. L’alternativa all’abbandono non può essere il suo utilizzo come suggestiva location. Altrimenti si continuerebbe a calpestarne, non soltanto il tracciato, ma anche quel che rimane ai lati. Si proseguirebbe a mortificare il paesaggio del quale è parte costitutiva. Trasformare l’Appia in un brand è una scellerata operazione.
“Il primo sbarramento della direttrice millenaria non è la frana di un monte, il collasso di un muraglione o lo straripamento di un torrente. E’ il bar Fly di Genzano laziale. Sopravvissuta al Grande Raccordo Anulare, al traffico della Statale 7, alle discariche edilizie, al rombo dei decolli di Ciampino e al pantano ai piedi dei Colli Albani, la linea indefettibile, capace di resistere persino ai cambi di nome…, si arresta davanti a una banconiera che ci chiede cosa vogliamo”. Così descrive Rumiz lo scempio che gli si presenta di fronte agli occhi. Il bar Fly è il prodotto di un mix letale realizzato tra gli anni ’60 e ’80 del Novecento. Mal celato disprezzo verso le testimonianze archeologiche e esibito interesse verso l’edificazione senza regole. Il rischio che fare dell’Appia la via del “turismo ad ogni costo” possa produrre scempi simili al bar Fly é reale. Se accadesse sarebbe imperdonabile.