di Tomaso Montanari.
«Le città italiane sono le più povere di verde pubblico d’Europa: e i parchi storici scampati alle lottizzazioni sono in condizioni pietose. Un esempio è il parco di Monza, di 680 ettari, creato da Napoleone nel 1805 (progettisti Luigi Canonica e Luigi Villoresi) capolavoro di competenza botanica e paesistica, unico grandioso polmone verde nella congestionata area metropolitana milanese settentrionale.
Ma da noi il verde non è considerato altro che un ripostiglio dove relegare quel che non si sa dove mettere: così il gran parco è per oltre la metà privatizzato da corpi estranei: allevamento di cani e cavalli, golf, ippodromo e, peggiore di tutti, l’autodromo».
Così scriveva nel 1987, su l’Espresso, Antonio Cederna: oggi, trentuno anni dopo, non solo la battaglia per allontanare l’autodromo sembra persa per sempre, ma la privatizzazione è avanzata a grandi passi, fino a travolgere la stessa Villa Reale.
Ripercorrere la storia tormentata di questo straordinario monumento significa misurare l’inarrestabile decadenza che l’idea stessa di bene comune ha dovuto subire in questi trent’anni. Nel 1996 la Villa venne sdemanializzata e passata in proprietà dei Comuni di Milano e di Monza: così finiva l’idea stessa di un “monumento nazionale”, e a causa del contemporaneo massacro della finanza degli enti locali, quel monumento veniva condannato a una vita di stenti.
Nel 2008 è stato costituito un Consorzio Villa Reale e Parco di Monza cui affidare il compito di valorizzare il bene: cioè in pratica di piazzarlo, in qualche modo, sul mercato. Detto fatto: nel 2010 un raggruppamento di imprese private for profit denominato Nuova Villa Reale spa si è aggiudicata la gestione ventennale del monumento.
Contro tutto questo si oppose Legambiente, presentando un ricorso che fu rigettato dal Tar, che in sentenza affermò che l’attività del gestore sarebbe stata condizionata da paletti irremovibili, come la destinazione della Villa ad attività compatibili con il suo carattere storico-artistico e come la necessità di garantirne la fruizione pubblica: come peraltro dispone il Codice dei Beni culturali.
Oggi possiamo dire che aveva ragione Legambiente: e possiamo dirlo grazie ad un comitato di cittadini nato per vegliare sul parco e sulla Villa e che si è voluto intitolare proprio ad Antonio Cederna, sorta di nume tutelare del bene più prezioso di Monza. Il comitato ha denunciato in tutte le sedi un fatto clamoroso, che costituisce un triste primato anche nel martoriato mondo dei beni culturali italiani. La Villa è stata chiusa al pubblico per la bellezza di un mese (dal 1° novembre al 1° dicembre del 2018) perché Luxottica ha affittato gli Appartamenti Reali e parte del giardino al prezzo (da saldo stracciatissimo) di 25.000 euro. Non si trattava di un evento culturale: ma semplicemente della possibilità di utilizzare una location strepitosa per il proprio business. Una destinazione puramente commerciale inconciliabile con il carattere storico e artistico della Villa. In più, per questo lunghissimo periodo nessun cittadino italiano, pur mantenendo il monumento con le proprie tasse, è potuto entrarci: nella più radicale negazione di ogni fruizione pubblica.
Subito dopo aver portato a casa questo capolavoro di valorizzazione, il concessionario ha chiesto formalmente al Consorzio di poter cambiare le condizioni di gestione chiudendo la Villa non solo il lunedì (tradizionale giorno di riposo), ma anche il martedì e il mercoledì, cioè per un terzo del tempo di visita che per contratto è tenuto a garantire. Sarà la magistratura ad accertare se la vicenda di Luxottica è stata corretta sul piano legale e sarà il Consorzio a decidere se accettare o meno il parziale disarmo della Villa. Ma comunque finiscano queste due vicende sul piano formale, la sostanza è chiarissima: ed è che il declino iniziato con l’uscita dal Demanio dello Stato e con l’ingresso nella proprietà degli enti locali ha portato ad una privatizzazione oggi insostenibile per lo stesso privato, costretto o a tener chiuso o far quattrini in modi che umiliano il monumento e ne negano il senso profondo.
Se fossimo un Paese serio, il Ministero per i Beni culturali dovrebbe raccogliere e pubblicare i dati che permettano di conoscere e valutare l’esito dei numerosissimi percorsi, del tutto analoghi, che altri monumenti pubblici capitali hanno dovuto compiere nello stesso numero di anni. Si scoprirebbe così che il disastro è diffuso, e forse si potrebbe avere la forza di tornare indietro, prendendo atto della realtà. Che è la seguente: nessun privato riesce a ricavare profitto dai grandi monumenti, se non a condizione di “violentarli”. Ed anche essendo disposti a farlo, i risultati sono modesti e in ultima analisi non tali da sostenere l’operazione.
Bisogna avere il coraggio di prendere atto che in nessun luogo il patrimonio culturale si automantiene né tantomeno genera reddito (se non in senso indiretto). Come ben sanno i loro direttori, i grandi musei americani non incrementano, ma piuttosto “consumano”, i frutti dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari che li sostengono: e lo fanno per produrre “cultura”. Come ben sanno i cittadini di Monza, la Villa e il Parco possono rendere: ma in termini di umanità, felicità, coesione sociale. Se lo Stato tornasse ad essere interessato a questo tipo di dividendi, potrebbe decidere di investirci. Per secoli l’abbiamo fatto: il risultato si chiama Italia.
O forse, così si chiamava.
Tratto da: https://emergenzacultura.org/2019/01/07/tomaso-montanari-il-verde-pubblico-martoriato/
Il nostro sito si è già occupato del Parco di Monza, qui:
http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2015/02/monza-le-ricchezze-culturali-ed-ambientali-del-parco-meritano-la-pole-position/