Contratti di paesaggio: l’anello (mancante) di congiunzione tra Convenzione europea del paesaggio e Codice dei beni culturali e del paesaggio

di Endri Orlandin.

L’attuale sistema di pianificazione del paesaggio italiano è frutto del tentativo di integrazione tra due approcci metodologici in apparenza affini ma in realtà assai divergenti: la Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze, 2000) e il Codice dei beni culturali e del paesaggio (Decreto Legislativo n. 42 del 2004).

La legge nazionale, pur conformandosi nominalmente agli obblighi e ai principi di cooperazione tra gli Stati, fissati dalle convenzioni internazionali in materia di conservazione e valorizzazione del paesaggio, evidenzia alcune discordanze rispetto al compendio di norme contenuto nella Convenzione. Sono diverse le questioni sulle quali si generano incoerenze e fraintendimenti metodologico-applicativi.

La prima è sicuramente connessa alle definizioni di paesaggio e pianificazione e al ruolo attivo attribuito alle popolazioni che sono prioritariamente coinvolte nella percezione e nella costruzione della dimensione sociale del paesaggio, oltre che nella partecipazione al processo di costruzione del progetto di piano.

La Convenzione sin dalla declinazione della definizione di paesaggio attribuisce un ruolo fondamentale alle popolazioni nella sua percezione e cognizione. Ancor più impegna gli stati a riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità. Prevede altresì misure specifiche volte alla valutazione dei paesaggi tenendo conto dei valori specifici che sono loro attribuiti dalle popolazioni. Il Codice, invece, all’articolo 131, definisce piuttosto sbrigativamente il paesaggio come il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. Si evince che alle popolazioni non viene attribuito alcun ruolo attivo nella determinazione dei valori identitari del paesaggio quale luogo della vita quotidiana, della rappresentazione dei valori etici della società e della memoria individuale e collettiva. Un atteggiamento, quello del legislatore italiano, alquanto propenso a determinare la definizione del concetto di paesaggio come un dato di fatto, un dogma, figlio di un’interpretazione “esperta” che non lascia spazio alcuno alla dimensione sociale.

Passando alla definizione di pianificazione paesaggistica il Codice afferma che il territorio deve essere adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono, mentre la Convenzione definisce la “pianificazione dei paesaggi” come il processo formale di studio, di progettazione e di costruzione mediante il quale vengono creati nuovi paesaggi per soddisfare le aspirazioni della popolazione interessata.

Un aspetto che appare determinante nell’applicazione di questo dettato è costituito dal legame imprescindibile tra paesaggio e popolazioni contenuto nella Convenzione. La costante presenza della società civile e del compito a essa assegnato nel processo di costruzione degli apparati di pianificazione costituisce una discriminante fondamentale tra modalità di approccio metodologico alla determinazione dei principi generali, delle strategie e degli orientamenti ai fini della salvaguardia, della pianificazione e della gestione del paesaggio. Inoltre se nella Convenzione la pianificazione paesaggistica determina un processo dinamico in cui vengono assecondati i cambiamenti nelle e delle popolazioni, il Codice invece è orientato alla restituzione di un’immagine statica dello stato di fatto (facendo riferimento alle bellezze individue e d’insieme e alle zone di particolare interesse ambientale, rispettivamente ai sensi delle leggi 1497 e 1089 del 1939 e della 431 del 1985).

A fronte del ruolo palesemente identitario attribuito alle popolazioni, sia nel processo di riconoscimento e interazione con il paesaggio che in quello di condivisione del progetto di piano, delineato dalla Convenzione, nel Codice tale indicazione viene mediata attraverso processi partecipativi e forme di concertazione istituzionale rivolte ai “soggetti interessati” e alle associazioni portatrici di interessi diffusi (individuate ai sensi delle vigenti disposizioni in materia di ambiente e danno ambientale).

Fin da questo primo incrocio di orientamenti appare piuttosto chiaro il divario non solo semantico ma culturale tra i due testi normativi.

Tale diversità è insita anche nei comportamenti pianificatori assunti dalle Regioni che sinora hanno avviato (e in alcuni casi concluso) il processo di redazione dei nuovi strumenti di pianificazione paesaggistica che, da un lato, hanno saputo cogliere alcune delle innovazioni teorico-metodologiche introdotte dalla Convenzione, dall’altro, sono riuscite a conformare i propri piani ai dettati del Codice.

Le istanze formulate dalla Convenzione si riflettono spesso nell’approccio metodologico alla definizione della forma e dei contenuti del piano tentando innanzitutto di superare la tradizionale azione di tutela vincolistica del paesaggio, concepita per specifiche parti di territorio o categorie di beni. La centralità assunta dalla pianificazione e la concezione estensiva e integrata di paesaggio consentono di superare la limitatezza delle disposizioni volte a tutelare sia singoli oggetti che porzioni di territorio. Sotto questo profilo tutto il territorio può considerarsi paesaggio, così come sancito dalla Convenzione.

L’integrazione nella nozione di paesaggio di nuovi postulati disciplinari costituisce inoltre un segnale di innovazione metodologica nell’approccio alla pianificazione. Alcuni dei nuovi processi di costruzione degli strumenti di piano sono stati impostati attraverso un percorso che mette in relazione tra loro: approccio cognitivo, veicolato dalla Convenzione, relativamente alla percezione identitaria dei luoghi da parte delle popolazioni (i cosiddetti sedimenti immateriali, ovvero il patrimonio genetico-testimoniale delle popolazioni che vivono, e hanno vissuto, un territorio), oltre a quello più tradizionale insito nella cultura vedutistica italiana; approccio culturale, al cui centro vengono posti prioritariamente i sedimenti materiali, corrispondenti all’insieme dei beni paesaggistici vincolati ex lege e agli ulteriori inventari di beni architettonici, storico-testimoniali, etc.; approccio ecologico, orientato alla conoscenza evolutiva dei sistemi interagenti di ecosistemi; approccio strutturale, che mette in relazione temporale insediamento antropico e ambiente e interpreta processualmente le relazioni fra “paesaggio ecologico” e “paesaggio culturale”; approccio ambientale, incentrato sulla lettura degli aspetti abiotici (appartenenti principalmente alle scienze della terra) e biotici (riferibili alle scienze biologiche).

Tutto ciò sinora ha costituito l’unica via seguita dalla pianificazione paesaggistica, senza prefigurare e/o ammettere ulteriori opzioni esperibili nell’azione di piano e di gestione del paesaggio.

Appare oramai giunto il momento di abbandonare un paradigma esclusivamente “impositivo” che, come hanno dimostrato i fatti, ha portato a scarsissimi risultati in vent’anni di applicazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (con soli cinque piani paesaggistici regionali approvati e diversi da lungo tempo in fase di revisione) e i risultati sono sotto gli occhi di tutti sia in termini di consumo di suolo/paesaggio che di devastazione del territorio a causa di una quantomeno distratta gestione delle misure e delle azioni di prevenzione dei rischi idraulici e idrogeologici.

Il tradizionale modello operativo top-down andrebbe ripensato e ri-orientato verso strumenti e processi di pianificazione paesaggistica negoziata, strumenti pattizi, volontari e partecipativi, fortemente innovativi e aggregativi, atti a introdurre forme di gestione sostenibile per paesaggi in cui le realtà locali siano portatrici delle proprie istanze, anche attraverso percorsi proattivi e inclusivi, come ad esempio forme di amministrazione condivisa che prendano vita da alleanze tra cittadini e pubbliche amministrazioni, ponendo al centro dell’attenzione e del percorso progettuale l’attività di pianificazione connessa all’individuazione degli ambiti di paesaggio e alla definizione dei loro contenuti meta-progettuali (gli obiettivi di qualità paesaggistica).

Ormai sono molteplici e mature le esperienze che vanno nella direzione in cui il processo di pianificazione viene inteso soprattutto come pratica sociale. Queste “pratiche informali” hanno un nome e una loro, anche se pur breve, prassi empirica e sono i Contratti di paesaggio, esperienza avviata in Umbria oltre dieci anni fa con riferimento ai “territori montani di Foligno, Trevi e Sellano”, “al Trasimeno” e “ai territori dei comuni di Acquasparta, Avigliano Umbro, Montecastrilli e San Gemini”. L’Osservatorio regionale per la qualità del paesaggio umbro ha assunto tali Contratti quali strumenti di pianificazione territoriale negoziata, ascrivibili alla categoria degli strumenti decisionali inclusivi, inerenti ad azioni di tutela e valorizzazione del paesaggio, volti alla riqualificazione di aree particolarmente rilevanti o sensibili.

Tali strumenti partecipativi sono fondati su intese e accordi, con valore contrattuale, tra comunità locali e istituzioni.

I Contratti di paesaggio possono quindi coniugarsi efficacemente con gli ambiti di paesaggio che, suddividendo il territorio regionale in macroaree fino a perimetrarlo interamente, ne definiscono anche gli obiettivi di qualità paesaggistica, prestando particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. In quest’ottica la dimensione pattizia può facilmente agevolare la gestione del processo di pianificazione e progettazione paesaggistica, consentendo agli abitanti di svolgere un ruolo da protagonisti, propositivo e attivo, nella tutela e nella valorizzazione di un bene comune tanto prezioso.

L’elemento qualificante di tale approccio è costituito dal pieno coinvolgimento delle comunità locali. Gli abitanti, gli enti locali e le associazioni sono chiamati non solo a rendere conto degli impatti prodotti e dei possibili contributi delle loro azioni rispetto a un processo predefinito, ma a delineare essi stessi obiettivi, strategie e priorità per le scelte future. Così facendo la responsabilità di attenersi agli obiettivi (di qualità paesaggistica) prefissati è garantita dal fatto che tali finalità siano state definite e condivise localmente dalla collettività.

La componente attuativa, che nei Contratti si traduce generalmente nel Programma di azione, può essere garantita dalla mutuazione degli obiettivi di qualità paesaggistica, delineati per ogni ambito di paesaggio, quali linee guida per la definizione delle azioni progettuali, alle quali associare tempi di attuazione, soggetti responsabili e risorse a disposizione.

I tempi sono ormai maturi per abbandonare il tradizionale sistema top-down e intraprendere un approccio proattivo/negoziale orientato alla partecipazione e all’inclusione delle comunità nella formulazione e assunzione condivisa di visioni e decisioni con contenuti operativi (attraverso gli ambiti di paesaggio), oppure di progetti partecipati di paesaggio mediante modalità di governance collaborativa.

Gli abitanti dei nostri territori cosa devono ancora dimostrare, o che cosa gli manca, per assurgere al ruolo di protagonisti nelle scelte progettuali che andranno a incidere sul futuro dei paesaggi della loro quotidianità?

In un paese fragile e costantemente a rischio come il nostro un simile approccio dovrebbe essere preteso dalle comunità locali prima ancora che espresso dalle leggi, sia come forma di autodeterminazione comunitaria, sia come processo di legittimazione sociale nei confronti dei processi di pianificazione (che è insito nel principio di sussidiarietà).

In fin dei conti esiste nel nostro Paese una grande tradizione e varietà di dimensioni, organismi e domini amministrativi in grado di proporre geografie e compagini con un’ormai consolidata esperienza nella gestione di processi decisionali dal basso e applicabili al paesaggio, basti ricordare le unioni di comuni, le comunità montane, le aree interne, etc.