Opinioni – www.salviamoilpaesaggio.it http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog Forum italiano dei movimenti per la difesa del paesaggio e lo stop al consumo di suolo Tue, 19 Nov 2024 11:12:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.2.6 http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/wp-content/uploads/2011/08/cropped-logo_salviamoilpaesaggio-32x32.jpg Opinioni – www.salviamoilpaesaggio.it http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog 32 32 Valpolicella paesaggisticamente alla deriva: nuovi capannoni industriali a San Pietro in Cariano http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2024/11/valpolicella-paesaggisticamente-alla-deriva-nuovi-capannoni-industriali-a-san-pietro-in-cariano/ http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2024/11/valpolicella-paesaggisticamente-alla-deriva-nuovi-capannoni-industriali-a-san-pietro-in-cariano/#respond Tue, 19 Nov 2024 11:12:55 +0000 http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/?p=16871 Prosegue la cementificazione delle terre dell’Amarone, già deformate dalla speculazione edilizia e dalla monocoltura della vite

Riceviamo e pubblichiamo la lettera inviata da Gabriele Fedrigo, scrittore e abitante della Valpolicella, al Sindaco di San Pietro in Cariano (Verona), relativa alla costruzione di nuovi edifici industriali al posto delll’ex acciaieria Lonardi, già demolita, per la nuova sede della Isap Packaging, produttrice di prodotti di plastica monouso. L’insediamento coprirà una superficie grande come dieci campi da calcio, con nuova impermeabilizzazione di suolo, incremento del debito ecologico e danno al paesaggio.

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Negrar di Valpolicella, 10 novembre 2024

Al Sindaco del Comune di San Pietro in Cariano Dott. Gerardo Zantedeschi

Ai Consiglieri del Consiglio Comunale di San Pietro in Cariano

All’Ufficio Tecnico edilizia privata del Comune di San Pietro in Cariano Dott. Andrea Marzuoli

Al Soprintendente di Verona Dott. Andrea Rosignoli

Isap Packaging Parona (Vr)

p.c. alle associazioni in indirizzo

alla cittadinanza della Valpolicella

agli organi di stampa

Oggetto: Lettera sul futuro dell’area ex Lonardi – San Pietro in Cariano (Verona)

Signor Sindaco,

è da tempo che le volevo scrivere, precisamente da quando ho saputo della demolizione di un muro storico nella frazione di Castelrotto; un muro storico reo di essere stato costruito in un borgo medievale prima che i SUV potessero girare per strada. Se lo ricorda quel bellissimo muro? Ora al suo posto ce n’è uno che sembra uscito da un computer tanto sa di finto. Un capitolo tristissimo per la storia di quella frazione e per tutta quella Valpolicella che non smette di amare «disperatamente i segni del passato in quanto bellezza» (P.P. Pasolini).

Poiché sono fedele a quanto mi insegna la saggezza degli uomini: Mors certa, hora incerta, non vorrei finire improvvisamente sotto terra senza prima averle espresso tutta la mia contrarietà alla pratica edilizia n. 16580 rilasciata dall’Ufficio Tecnico del suo Comune alla Ditta Immobiliare Cameri Srl (gruppo Cordifin). La conosce quella pratica edilizia, vero? Sì, quella che vedrà la nascita di uno dei capannoni più impattanti della Valpolicella sull’area ex Lonardi. Un nuovo scempio, come se non ce ne fossero già abbastanza in una Valpolicella paesaggisticamente alla deriva in cui i segni nefasti dell’ingordigia di profitto del capitale agrario e industriale si riversano non solo sulla sua storia, cancellandola, ma anche su chi la abita. Un capannone a ridosso delle colline di Castelrotto; un capannone industriale da delirio edilizio viste le dimensioni. Un capannone grande come dieci campi da calcio, per un colossale trasloco dell’Isap Packaging di Parona. Un capannone che sorgerà prospiciente il poggio dove c’è Villa Fumanelli. E che vuole che sia? lei mi dirà. E la vista sulle colline? E l’impatto ambientale? Ma dico, e la Soprintendenza? Se c’è, dov’è? La Soprintendenza dovrebbe essere al corrente del vincolo paesaggistico della Valpolicella. La responsabilità della Soprintendenza in questo ennesimo gioco al massacro del paesaggio non può essere sottaciuta. Come si è pronunciata la Soprintendenza sull’impatto paesaggistico di questo nuovo mostro, dopo quelli che la Valpolicella ha dovuto ingoiare in questi ultimi anni?

E così dopo la lavorazione dell’acciaio della Lonardi ora arriva in Valpolicella la plastica dell’Isap. Ci mancava solo questa! Sì, plastica, naturalmente una produzione sostenibile, attenta all’ambiente, ecc. Ma si può sapere di quale sostenibilità? La storia della sostenibilità chi la beve più? Come se la produzione di bioplastica fosse a zero emissioni e non comportasse allo stato attuale alcun costo ambientale, come invece riportato, fra gli altri, dall’inchiesta giornalistica di Aryn Baker del Time del 28 novembre 2023, The dirty secret of alternative plastic.

La produzione di una tonnellata di cemento causa l’emissione di una tonnellata di CO2. Il debito ecologico della demolizione e della costruzione della nuova Isap a quanto ammonta? Lo possiamo sapere? Signor Sindaco, lei lo sa? E la nuova impermeabilizzazione del suolo, le dice proprio niente in epoca di riscaldamento globale e di alluvioni? E che dire della futura dismissione dell’Isap che, se non sbaglio, è a Parona dal 1963? Su quell’area non sono forse puntati già da anni gli occhi per un’altra mega operazione di speculazione edilizia nel martoriato Parco dell’Adige, come già avvenuto con la lottizzazione della gated community denominata VerdeAdige? Ma quali saranno mai gli attori di questa futura mega-lottizzazione nel Parco dell’Adige?

Fa specie che la cittadinanza della Valpolicella venga a sapere dai giornali e da facebook il destino dell’area ex Lonardi fagocitata da un progetto di tali dimensioni e di tale impatto paesaggistico e ambientale. La cittadinanza non ha avuto alcuna voce in capitolo in questa vicenda. O mi sbaglio? Le chiedo allora: perché non ha convocato un’assemblea aperta a tutti i cittadini in cui informare quanto si stava approvando? Possibile che la cittadinanza venga sempre a sapere di ciò che avviene sul territorio quando i giochi sono già chiusi? Nel prossimo Consiglio Comunale del 13 novembre 2024 si ratificherà di fatto quel che è già stato deciso altrove. Possiamo sapere dov’è questo altrove? Possiamo conoscere l’iter che ha portato a tale scelta paesaggisticamente scellerata?

Quando ho visto i lavori di demolizione dei capannoni dell’ex Lonardi, non volevo credere ai miei occhi. Sì, mi sono ben fatto la domanda: e ora, tutte quelle macerie di rifiuto speciale dove andranno a finire? Lei lo sa? Possiamo conoscere la discarica in cui verrà smaltito questo enorme ammasso di macerie? Eppure le confesso che vedere l’orizzonte libero dai capannoni mi ha galvanizzato come non mi era mai successo prima, quanto meno qui in Valpolicella, dove vivo la mia alienazione e quella di chi mi circonda.

Pensavo che con questa demolizione di capannoni fatiscenti dell’ex Lonardi il Comune di San Pietro in Cariano avesse voluto svoltare definitivamente pagina e mostrare a tutti che anche qui in Valpolicella è ora di dire basta a decenni di sfruttamento e di maltrattamento di Madre Terra. Un sindaco e un’amministrazione finalmente all’altezza dell’emergenza climatica e ambientale che stiamo tutti vivendo e subendo a causa di una conduzione economica rapace, onnivora e distruttiva. Un sindaco e un’amministrazione che dicono un solenne NO! a chi vuole ancora cementificare e a chi pensa alla terra come mero strumento di profitto. Un sindaco e un’amministrazione che finalmente decidono di impiantare migliaia di alberi all’ex Lonardi forse per saldare un po’ i conti con l’ambiente. Che illuso! Ma quali alberi? Cemento, cemento, e ancora cemento… per un’attività produttiva retta da mere logiche di profitto e di crescita. Quella stessa crescita che sta portando la nostra specie all’autodistruzione…

Possiamo sapere che ne viene alla cittadinanza della Valpolicella da questo ennesimo scempio, che non sia la solita solfa di chi benedice l’attività produttiva del privato che porta lavoro? E a vantaggio di chi porterebbe lavoro? Forse a vantaggio dell’operaio che aliena la sua vita in fabbrica?

Non pensa che sia la comunità a dover decidere il proprio destino e il destino del proprio territorio?

In attesa di riscontro.

Le scrivo da cittadino della Valpolicella e da cittadino del mondo. Le scrivo da amante della bellezza.

Gabriele Fedrigo

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Ripristino della Natura e Agricoltura http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2024/11/ripristino-della-natura-e-agricoltura/ http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2024/11/ripristino-della-natura-e-agricoltura/#comments Mon, 11 Nov 2024 22:47:34 +0000 http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/?p=16855 L’agricoltura produce una notevole quantità di gas climalteranti ed è responsabile di circa un quinto di tutte le emissioni antropiche di gas serra. Rappresenta quindi uno dei settori più coinvolti dalle misure di ripristino della natura. Il nodo cruciale sarà la capacità di ogni Stato di trovare un equilibrio tra la tutela della biodiversità e le esigenze economiche

di Giuseppe Sarracino (agronomo)

Il 17 giugno 2024, l’Unione Europea ha approvato il Regolamento sul Ripristino della Natura, parte integrante del Green Deal europeo, finalizzato al ripristino degli ecosistemi degradati e al miglioramento della biodiversità, entrato in vigore il 18 agosto. Questo regolamento, vincolante per gli Stati membri, impone l’obbligo di attuarlo integralmente. Nella relazione di accompagnamento si evidenzia che “la perdita di biodiversità e il degrado degli ecosistemi proseguono a un ritmo allarmante, danneggiando le persone, l’economia e il clima”. Solo un ripristino tempestivo degli ecosistemi potrà garantire benessere, prosperità e sicurezza a lungo termine ai Paesi membri.

Questo approccio non è dettato da una visione puramente bucolica o ideologica della natura, ma riconosce l’esistenza di un nesso sempre più stretto tra la salute umana, quella degli animali e un ambiente naturale integro e resiliente. Si tratta di obiettivi ambiziosi ma indispensabili, che gli Stati membri sono chiamati a perseguire in una visione multidimensionale e integrata. Il crescente squilibrio tra spazi naturali e artificiali richiede, come previsto dal regolamento, un aumento e un recupero delle aree naturali. Questo obiettivo non è privo di difficoltà, poiché le azioni di ripristino degli ecosistemi richiedono spesso la conversione di terreni attualmente destinati a usi potenzialmente più redditizi dal punto di vista economico.

L’articolo 4 stabilisce che Gli Stati membri mettono in atto le misure di ripristino necessarie per riportare in buono stato le zone dei tipi di habitat”. Infatti, entro il 2030, dovranno ripristinare almeno il 30% della superficie totale di tutti i tipi di habitat non in buono stato, raggiungendo il 60% entro il 2040 e il 90% entro il 2050, come stabilito nell’Allegato I del regolamento. A tale proposito, ogni Paese dovrà elaborare un piano nazionale di ripristino, uno strumento di pianificazione fondamentale previsto dall’articolo 14. Tale piano dovrà includere le misure necessarie per il ripristino della natura, stabilendo interventi concreti e monitorando i progressi: “Ciascuno Stato membro prepara un piano nazionale di ripristino ed effettua il monitoraggio e le ricerche preliminari per individuare le misure di ripristino necessarie per conseguire gli obiettivi di ripristino e adempiere gli obblighi di cui agli articoli da 4 a 13″.

Il Ministro dell’Ambiente ha dichiarato che “Le azioni del Piano dovranno conciliare la sostenibilità economica, ambientale e sociale degli interventi, e la definizione di appositi finanziamenti, anche di carattere europeo, sarà fondamentale per evitare l’accrescimento degli oneri per i vari settori coinvolti”. Si tratta di un impegno importante, tuttavia, non sarà sufficiente un semplice obbligo giuridico, soprattutto quando gli interventi previsti possono entrare in conflitto con attività economiche esistenti, come l‘agricoltura. Il settore primario è infatti tra i più coinvolti dalle misure di ripristino, che potrebbero influenzare le modalità di gestione, le tecniche produttive e la destinazione stessa dei terreni agricoli. Per migliorare la biodiversità negli ecosistemi agricoli, sarà necessario adottare misure che consentano adeguati progressi, come ad esempio, il ripristino di almeno il 30% delle torbiere drenate entro il 2030, oppure rafforzerà la biodiversità negli ecosistemi agricoli.

A tale proposito, le organizzazioni agricole hanno espresso forti critiche, dichiarando: “Quella sul ripristino della natura è una legge senza logica che, tra le altre cose, diminuisce la produzione agricola” sostenendo con forza che “Con la nuova normativa verrà messo a rischio il potenziale produttivo del settore”. Queste preoccupazioni hanno allungato l’iter per l’approvazione del regolamento, tanto che è stata necessario stralciare la controversa proposta di ridurre del 10% la superficie agricola produttiva. Le preoccupazioni delle organizzazioni agricole sono comprensibili, ma la diminuzione della produttività non può essere attribuita a qualcosa che ancora deve essere attuato. Al contrario, da anni sulla agricoltura, pesano, invece, serie debolezze strutturali: il VII censimento dell’agricoltura del 2020 ha registrato una diminuzione del 30% delle aziende agricole, pari a circa 500.000, e del 2,5% della superficie agricola utilizzata rispetto al 2010. La dimensione media delle aziende è di circa 11 ettari contro una media europea di circa 60 ettari. Scarsa è la presenza di giovani imprenditori (solo il 9%, contro il 12% della media UE), troppo basso il livello di formazione (il 60% possiede solo la licenza media) inoltre il 93% delle aziende è a conduzione familiare. Anche il sostegno pubblico all’agricoltura è diminuito notevolmente, e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) non ha ancora avuto un impatto significativo.

Al contrario, il regolamento, attraverso il risanamento degli ecosistemi, mira a garantire alimenti e sicurezza alimentare, acqua pulita, pozzi di assorbimento del carbonio e protezione dalle catastrofi naturali provocate dai cambiamenti climatici. L’art. 11, “Ripristino degli ecosistemi agricoli”, prevede che “Gli Stati membri mettono in atto le misure di ripristino necessarie per rafforzare la biodiversità degli ecosistemi agricoli, in aggiunta alle zone soggette a misure di ripristino a norma dell’articolo 4, paragrafi 1, 4 e 7, tenendo conto dei cambiamenti climatici, delle esigenze sociali ed economiche delle zone rurali e della necessità di garantire la produzione agricola sostenibile nell’Unione”.

L’agricoltura è un fattore strategico per la riuscita del Green Deal, in quanto produce una notevole quantità di gas climalteranti ed è responsabile di circa un quinto (21%) di tutte le emissioni antropiche di gas serra. Inoltre, è l’attività economica che più di ogni altra, attraverso le sue pratiche agronomiche, trasforma e modella la natura e le sue risorse. Tuttavia, il nodo cruciale sarà la capacità di ogni Stato di trovare un equilibrio tra la tutela della biodiversità e le esigenze economiche. Questo aspetto politico e sociale è di grande rilevanza, e la sfida sarà quella di creare una sinergia tra sviluppo economico e protezione ambientale, piuttosto che generare conflitti.

L’urgenza di questa mediazione è evidente, soprattutto di fronte alle continue inondazioni, sempre più frequenti e intense a causa della crisi climatica, che stanno danneggiando non solo il territorio italiano ma anche quello di tutti gli Stati membri. Nell’Unione Europea, nel 2021 e nel 2022 si è registrata un’accelerazione delle perdite economiche dovute a eventi estremi; secondo il rapporto dell’ex presidente finlandese, nel 2021 i danni hanno sfiorato i 60 miliardi di euro, e circa 52 miliardi l’anno successivo. “Il Green Deal non è un atto di generosità morale, ma è il tentativo europeo di salvaguardare il proprio futuro.”

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Continuano le alluvioni ma i ministri accusano chi difende l’ambiente: il mondo alla rovescia http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2024/10/continuano-le-alluvioni-ma-i-ministri-accusano-chi-difende-lambiente-il-mondo-alla-rovescia/ Tue, 29 Oct 2024 22:28:00 +0000 http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/?p=16841 Di Fabio BaloccoBlog Fatto Quotidiano 29.10.2024

In questo governo di scappati di casa in cui ognuno fa a gara a chi fa o la dice più grossa… un posto se lo è ritagliato anche il ministro (scusate se scrivo minuscolo, ma non nutro grande stima dei ministri in generale) della Protezione Civile, Nello Musumeci, che, intervistato a Rai News 24, commentando le ormai abituali alluvioni che flagellano buona parte del paese, ha letteralmente affermato: “Un po’ di responsabilità è anche di un certo ambientalismo integralista che ha dettato con la propria presenza una legislazione e una normativa assai vincolistica. L’Ispra, ad esempio, che è un istituto di grande scienza e cultura, sembra essere nelle mani di qualche ambientalista particolarmente fazioso, di quelli che non consentono di intervenire per togliere un albero o di consolidare gli argini perché c’è un tipo particolare di uccello che deve nidificare. Questo è un ambientalismo ideologizzato”.

Non è la prima volta che un ministro attacca chi difende la natura. Nel 2018, quando era ministro dell’Interno, Matteo Salvini nel primo governo Conte (quello in cui iniziò la rapida discesa agli inferi dei grillini) coniò il termine di “ambientalismo da salotto” per coloro che, a detta sua, pontificavano sulla tutela della natura, senza avere un’idea chiara degli interventi a suo dire necessari per evitare i disastri.

Sostanzialmente stesso concetto fu espresso nel 2021 da quel ministro della Transizione Ecologica benedetto da Beppe Grillo (!) nel governo Draghi (ennesima caduta dei grillini), Roberto Cingolani, il quale parlò di ambientalisti radical chic, oltranzisti e ideologici “ambientalisti radical chic peggiori della catastrofe climatica”. Ed arriviamo al 2023 quando il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin fa il pappagallo parlando degli ambientalisti “quelli da salotto, che vivono al ventesimo piano di un grattacielo.”

Lasciamo perdere solo per pietà il commento sugli ambientalisti che sarebbero benestanti e staccati dalla realtà (del resto vivono nei grattacieli…), e veniamo all’affermazione di Musumeci, che non si limita a prendersela con i salottieri, ma addirittura attacca l’Ispra, che è un organismo istituito nel 2008 alle dipendenze del Ministero dell’Ambiente e che cura, tra le altre cose, anche un rapporto annuale sul consumo di suolo in Italia.

Evidentemente, dato che l’affermazione di Musumeci è stata pronunciata in occasione dell’ennesimo disastro che ha colpito l’Emilia Romagna, è proprio questo che dà fastidio, il fatto che l’istituto denunci annualmente che il consumo di suolo non si arresta, e che una parte non irrilevante di quel consumo origini proprio dalla transizione ecologica (leggasi “parchi” fotovoltaici a terra). Lo capiscono anche i bambini che le affermazioni, nel tempo, di Salvini, Cingolani, Pichetto Fratin, Musumeci rispecchiano il motto cinese “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Anche se viene da pensare che i vari ministri non siano in realtà così sciocchi, ma siano in perfetta malafede.

Partiamo dal presupposto che gli ambientalisti non hanno mai governato, né governa l’Ispra, che è mero organismo di consulenza. Quindi, se disastri ci sono è perché ha deciso la politica che ci fossero, promuovendo la stessa politica da decenni: grandi opere, lottizzazioni, hub per la logistica, e, in generale asfaltatura e cementificazione del territorio: quella che si chiama impermeabilizzazione del suolo. Paolo Pileri, nel suo recente saggio Dalla parte del suolo. L’ecosistema invisibile, parla di un futuribile reato di “procurata fragilità del territorio”, reato non da poco se si considerano i quarantuno morti causati dalle alluvioni nei tempi recenti (sempre Paolo Pileri).

Ma, dal punto di vista giuridico, la ipotetica responsabilità penale soprattutto dei vari ministri va al di là della colpa, per configurarsi come dolo eventuale, posto che lo strumento per evitare gli attuali e futuri disastri ci sarebbe: è la proposta di legge del 2018 per arrestare il consumo di suolo presentata dall’onorevole Paola Nugnes e ripresa nell’attuale legislatura dall’onorevole Stefania Ascari. Del resto, una volta tanto è l’Europa che ce lo chiede, visto che entro il 2050 si dovrebbe raggiungere l’obiettivo di zero consumo di suolo.

Forse il ministro Musumeci non lo sa della pdl, non ha aperto il cassetto, visto che ha affermato nella stessa intervista di cui sopra che “serve una legge per limitare il consumo di suolo”. Quindi da una parte dice che manca una legge, e dall’altra se la prende con l’Ispra che denuncia proprio quello, che, a causa della mancanza di un freno, in Italia si consuma il suolo alla velocità di due metri quadrati al secondo. In psichiatria, questo si chiama atteggiamento schizofrenico.

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Le alluvioni sono colpa degli ambientalisti integralisti. Ma anche dell’ISPRA… http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2024/10/le-alluvioni-sono-colpa-degli-ambientalisti-integralisti-ma-anche-dellispra/ Fri, 25 Oct 2024 12:58:13 +0000 http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/?p=16821 di Alessandro Mortarino, pubblicato su Altritasti.it

Lo scorso martedì 22 ottobre il Ministro per la Protezione Civile e le Politiche del mare, Nello Musumeci, ha rilasciato una lunga intervista in diretta a “Pomeriggio 24”, su RaiNews, esprimendo le sue considerazioni sulle condizioni di fragilità del territorio italiano all’indomani dell’ennesima tragedia alluvionale che ha colpito la sempre più martoriata Emilia Romagna.
Innumerevoli i punti e gli spunti affrontati dal Ministro che ha rimarcato, ancora una volta, l’urgenza di approvare una legge per limitare il consumo di suolo, poiché «il cemento è il miglior complice delle alluvioni. E la prevenzione va fatta 30-40 anni prima, su un territorio così fragile»…

Sarebbe facile domandarci come mai il Ministro sollecita la definizione di una norma nazionale in diretta tv anziché mettere attorno a un tavolo i suoi colleghi di governo e legarli a una sedia (“volli, volli, fortissimamente volli” di alfieriana memoria…) fino alla sua promulgazione, da noi attesa ormai da ben oltre un decennio.

Curioso, anche, che il Ministro torni a parlare di “limitazione del consumo di suolo“, mostrando la sua totale estraneità verso i concetti di “arresto” formulati dal nostro Forum nazionale Salviamo il Paesaggio nella specifica Proposta di Legge – bloccata al Senato nella scorsa legislatura e ora alla Camera nelle medesime condizioni – e mostrando pure scarsa conoscenza degli impegni che l’Italia ha già sottoscritto per la scadenza al 2030 connessa all’azzeramento del consumo di suolo netto.

Ma c’è un altro argomento su cui il Ministro Musumeci ha “sparato ad alzo zero” (qui lo “zero” è ancor più evidente…). Questa la sua testuale dichiarazione:«Una certa responsabilità è anche di un certo ambientalismo integralista che ha dettato con la propria presenza una legislazione e una normativa assai vincolistica. Voglio dire che l’Ispra, per esempio, che è un istituto di grande scienza e cultura, sembra essere nelle mani di qualche ambientalista particolarmente fazioso; di quelli, cioè, che non consentono alla Pubblica Amministrazione di intervenire e togliere un albero che è cresciuto nell’alveo di un fiume e che quindi può diventare un ostacolo quando il fiume è in piena o di consolidare gli argini perchè c’è un tipo di insetto particolare o perchè c’è un tipo di uccello particolare che deve nidificare in quelle zone. E quindi non si apre il cantiere, arriva la pioggia, si va all’esondazione, si va alla tracimazione, si contano i morti. Non è, questo, ambientalismo responsabile: mi sembra un ambientalismo molto ideologicizzato».

Che un membro del Governo in carica cerchi di delegittimare pubblicamente i rappresentanti delle istanze ambientaliste – ahinoi – non è una novità. Ma l’attacco frontale all’ISPRA ci pare davvero sorprendente, inusuale, grave.
Forse non è superfluo ricordare che ISPRA è l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ed è un ente pubblico di ricerca sottoposto alla vigilanza del Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica (MASE), di cui è preciso supporto scientifico. E’, dunque, un ente tecnico-scientifico: non fa politica, non promulga leggi, non obbliga. Monitora, analizza e rende pubblici dati, fotografa, suggerisce.
Di certo non è un’associazione ambientalista né una congrega di ottusi “Nimby”. E immaginare ISPRA al soldo degli ambientalisti integralisti fa impallidire le più fervide penne della letteratura fantascientifica.

Le reazioni non si sono fatte attendere. Il WWF ha così commentato: «O siamo di fronte ad un grave gap di conoscenza scientifica o inevitabilmente dobbiamo pensare che questa politica, che vorrebbe che i tecnici ubbidissero negando le proprie conoscenze e competenze, risponde ad interessi diffusi e complessi. Alludiamo alla politica che strizza l’occhio ai condoni, che non esita a sperperare più di 14 miliardi sul Ponte sullo Stretto invece di investire in difesa del territorio, che pensa che la tutela sia un eccesso e non una garanzia. Insomma, quella politica per cui il problema è chi chiede da decenni di dare spazio e rinaturalizzare i fiumi, di liberarli dal cemento, di garantire ampie fasce di esondazione programmabile, di rispettare rigidamente le fasce di protezione, di ridurre le emissioni climalteranti. Con amarezza dobbiamo prendere atto che il nostro Paese non è solo in balia degli effetti del cambiamento climatico, ma anche di una politica che con ogni evidenza è più alla ricerca di giustificazioni che di soluzioni».

A noi le parole di Musumeci hanno, invece, fatto scattare questo collegamento: «... prima vennero a prendere i migranti, poi la stampa indipendente, poi i magistrati, poi gli ambientalisti integralisti, poi l’Ispra, gli zingari, gli omosessuali, gli ebrei».
Vi ricorda qualcosa?…

La sensazione – affatto gradevole – è che si stia avviando la compilazione di qualche nuova “lista di proscrizione”, che potrebbe vedere in testa le denominazioni di molte associazioni onestamente critiche verso le inanità o i ritardi del Governo di turno e del Legislatore sovrano e, a seguire, dello stesso Sistema nazionale di protezione ambientale, la cui mancata attuazione di riforma sta diventando un fattore di scarsa credibilità delle istituzioni per un corretto svolgimento delle politiche ambientali (qui una esaustiva disamina della situazione in cui versano le Agenzia dell’ambiente, fotografata da Giovanni Barca su “L’Astrolabio”).

Vigilare è più che mai d’obbligo. E un casco protettivo potrebbe essere quanto mai consigliabile.
Un casco integrale. Integrale. Questo sì…



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Lasciamo riposare la terra http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2024/09/lasciamo-riposare-la-terra/ http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2024/09/lasciamo-riposare-la-terra/#comments Wed, 04 Sep 2024 16:38:32 +0000 http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/?p=16724 di Enzo Scandurra

Pubblicato su Comune-info-net il 31.07.2024

Nelle Facoltà di Ingegneria (ma non solo) la parola “terra” è stata sempre sinonimo di suolo: suolo da edificare, suolo dove lavorare, suolo da dove estrarre risorse illimitatamente (fossili, in primis), comunque suolo da sfruttare. Questa visione ideologica (che nasce con la rivoluzione scientifica: la separazione tra mente e natura) e produttivistica (capitalismo sempre più feroce ed estrattivo) ha prodotto, e continua a produrre, enormi danni al pianeta, desertificandolo, riducendo la sua biodiversità, immiserendolo.

La mitologia sottesa dagli studi di ingegneria si basa sull’abbattimento di ogni limite o barriera (il ponte più lungo, la macchina più veloce, la produzione più accelerata) e costituisce l’alleata più efficiente della crescita illimitata (alla base del mito di Odisseo che travalica le colonne d’Ercole, i limiti del divino).

È stato detto che su tutto questo domina la cultura del silenzio, una cultura che tace su tutto ciò che dovrebbe essere invece ascoltato, dibattuto, confrontato: il silenzio dei poveri, dei dannati della terra, degli sfruttati e, ora, dei tanti morti per guerre combattute per fame di terra, acqua, di risorse che questa sapientemente dispone per la nostra sopravvivenza, di una dignità ferita per sempre.

«Chi grida nella notte delle macerie?/ Non credevamo sarebbe tornata/ La razionalità ci avrebbe difeso/ Giocare a Dio non è stato un buon affare/ La hybris ci ha devastato/ Branchi di semidei vagano rabbiosi/ Noi che venimmo da un passato animale/ Dal cuore di tenebra/ Sognammo un incubo/ Il ritorno all’animale».

È tempo di cambiare paradigma e parole ormai usurate: terra significa “madre-terra” o ancora Gaia, Biosfera, ecosistema planetario, luogo che ci ospita, che produce la vita e quanto abbiamo bisogno. Definita con un neologismo la terra è Matria, luogo fisico e metaforico di accoglienza contrapposta a “Patria” parola inservibile, irrecuperabile. «Patria è ancora la nazione maschia (o meglio – in un rovesciamento semantico – la nazione femmina la cui inviolabilità è garantita dai maschi), è il precipitato della peggiore retorica bellicista ed escludente, respingente e classista».

Pensarsi in termini di Matria, dice Michela Murgia, consente di sradicare la prospettiva di Nazione, poiché significa madre di tutti che nell’esperienza di ognuno di noi non è un soggetto imperativo, ma è la prima cosa vivente scorta, la prima amata, quella sempre desiderata. 

Gli uomini sono al 100% cultura e al 100% natura, sostiene Edgar Morin. Impossibile separare; la mente non è più nobile del corpo come pensava Descartes, entrambi prodotti di un’evoluzione biologica che ci lega alla terra, non siamo abitanti occasionali, apparteniamo ad essa come gli animali e le piante. Siamo parte di un ecosistema planetario mosso e alimentato dall’energia solare.

Il vento, le maree, la pioggia e tutti gli eventi atmosferici nascono da questa energia che poco riusciamo ad usare, diversamente dalla natura che ne è animata e da cui ricava la sua bellezza e abbondanza. Nel 1957 un oggetto fabbricato dall’uomo fu lanciato nell’universo e per qualche settimana girò intorno alla terra seguendo le stesse leggi di gravità che determinano il movimento dei corpi celesti. Ma, afferma Hannah Arendt, per un fenomeno piuttosto curioso la gioia non fu il sentimento dominante, quanto piuttosto di sollievo per «il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre». Nel commentare questa manifestazione Arendt sostenne che la terra è la quintessenza della condizione umana e la natura terrestre, per quanto ne sappiamo, è l’unica nell’universo che possa provvedere gli esseri umani di un habitat in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza artificio. Dunque, tale sentimento “di liberazione” esprime lo sforzo di rendere artificiale anche la vita, di recidere l’ultimo legame per cui l’uomo rientra ancora tra i figli della natura.

Il nuovo paradigma mette al centro una nuova cultura all’altezza dei tempi, una cultura che richiede un profondo ripensamento del rapporto che lega gli esseri umani al resto della vita sulla terra, una cultura che permetta l’uscita dall’antropocene, una cultura che richiede una radicalità ancor più forte di quella all’origine delle pratiche e delle lotte che hanno caratterizzato il secolo passato cui molti sono ancora ancorati.

La crisi climatica e con essa, le disuguaglianze, le migrazioni, tenderanno ad aggravarsi: ce lo confermano le comunità di scienziati che al tempo stesso ci avvertono che siamo in prossimità di un punto di non ritorno. Combattere la crisi climatica richiede non solo opere di mitigazione, ma anche un atteggiamento di adattamento che coinvolge le relazioni tra persone, soprattutto quelle più fragili, quelle povere, quelle sfruttate, più oppresse. 

La transizione ecologica, meglio sarebbe chiamarla conversione ecologica, come sostiene Viale, dovrà essere una transizione che muove soprattutto dal basso, dove le esperienze più virtuose oggi già in atto potranno essere replicate da altre comunità.

La nuova prospettiva è quella che vede il superamento tra cultura e natura, tra spirito e materia, tra mente e corpo e che mette in discussione la crescita illimitata e lo sviluppo. La crescita altro non è che accumulazione di capitale e richiede lo sfruttamento della terra e degli esseri umani. Lo sviluppo è il suo volto presentabile sotto forma di “sostenibile”, “umano”, “ecologico”. Questo slittamento semantico conduce verso pratiche devastanti, quali il nucleare (considerato dalla comunità europea “sostenibile”), la produzione di CO2 e il suo seppellimento (per continuare a produrre senza cambiare nulla), lo sfruttamento di interi paesi e dei fondali marini, alla ricerca dei minerali rari per la costruzione di batterie per le auto elettriche. Ma i governi mondiali pubblicizzano tali rimedi come necessari per la transizione, nessuno di essi dice che bisognerebbe consumare di meno, spostarsi di meno. Mangiare una torta e poi ri-averla tale e quale come sostiene la definizione di sostenibilità è un obiettivo fisicamente irraggiungibile come già ci spiegava Georgescu-Roegen sulla base del secondo principio della termodinamica. 

Già Giorgio Nebbia nel 1999 proponeva di abolire la parola sostenibilità e tutti i suoi aggettiviLa sostenibilità è il trucco che i governi usano per far credere che sia possibile continuare nella stessa direzione con qualche rattoppo. Gregory Bateson, con riferimento alla sua conoscenza della Bibbia, ci ha insegnato che il dio ecologico non può essere beffato e che in ecologia non esistono scorciatoie. La conversione ecologica indica invece una conversione a U nella direzione dello sviluppo e significa in primo luogo avere cura della terra e del suo vivente.

La nuova prospettiva richiede la rinuncia alla centralità dell’uomo nell’universo, la rinuncia al patriarcato, all’imperialismo e a tutti i gretti nazionalismi, alle guerre, tutte. Ed è quella basata su comunità accoglienti e sulla valorizzazione del lavoro di cura, attività legate alla produzione e riproduzione della vita, comprese quelle sociali che tengono unite le comunità e ne rafforzano i legami.

Il vero “sviluppo sostenibile”, quello ostacolato dai poteri forti, è quello legato al miglioramento delle condizioni di vita di una generazione, dell’abolizione di ogni tipo di sfruttamento degli esseri umani e degli ecosistemi di supporto alla vita, quello legato all’accoglienza di chi fugge da guerre o desertificazioni, dall’abolizione degli armamenti in ogni paese e, dunque, da una ritrovata armonia con la terra.

Nella storia non c’è mai continuità; quando poteri pur forti che siano si affermano è altrettanto probabile che essi cadano velocemente a seguito di rivolte. Comunità virtuose, stili di vita diversi, pur restando silenti per anni, possono irrompere sulla scena dando luogo a capovolgimenti inediti e imprevisti, come fiumi carsici che riaffiorano prepotentemente dopo lunghi tratti attraversati nel sottosuolo, silenti.

È già accaduto. Non avverrà spontaneamente; ogni cambiamento determina lutti e gioie; è probabile che avvenga al seguito di rivolte non pacifiche, di certo non con la rassegnazione al consumismo e al pensiero unico, almeno fino a quando non ci sarà più nulla da consumare su questa terra.

C’è chi tra di noi crede che l’unico conflitto sia quello tra gli uomini per il possesso del potere o per il mantenimento del predominio. Credo che l’epoca attuale abbia fatto emergere che questo stesso conflitto vede ora quegli stessi uomini contro la madre-terra dispensatrice di beni. Non ci sono due conflitti separati: il predominio degli uomini sui propri simili comprende quello più vasto del predominio sulla natura. 

L’armonia con la natura ha bisogno di pace, è pace. Come Università, come studiosi, cultori e depositari del pensiero critico disinteressato, abbiamo il dovere di contribuire a erigere queste casematte di resistenza negli atenei e nei territori; sentinelle silenti che torneranno utili nel momento in cui l’umanità, si spera, ritroverà la sua Ragione.

Nota: il titolo riprende quello di un libro di Giovanni Franzoni del 1999.

Enzo Scandurra è urbanista, saggista e scrittore. Ha insegnato per oltre quarant’anni “Sviluppo sostenibile per l’ambiente e il territorio”. Collabora con numerose riviste scientifiche. Ha scritto molti saggi sulle trasformazioni delle città. Tra i suoi libri: Un paese ci vuole (2007), Ricominciamo dalle periferie (2009), Vite periferiche (2012), Fuori squadra (2017), Splendori e miserie dell’urbanistica (con I. Agostini, 2018).

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Contratti di paesaggio: l’anello (mancante) di congiunzione tra Convenzione europea del paesaggio e Codice dei beni culturali e del paesaggio http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2024/05/contratti-di-paesaggio-lanello-mancante-di-congiunzione-tra-convenzione-europea-del-paesaggio-e-codice-dei-beni-culturali-e-del-paesaggio/ Fri, 31 May 2024 08:17:34 +0000 http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/?p=16605 di Endri Orlandin.

L’attuale sistema di pianificazione del paesaggio italiano è frutto del tentativo di integrazione tra due approcci metodologici in apparenza affini ma in realtà assai divergenti: la Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze, 2000) e il Codice dei beni culturali e del paesaggio (Decreto Legislativo n. 42 del 2004).

La legge nazionale, pur conformandosi nominalmente agli obblighi e ai principi di cooperazione tra gli Stati, fissati dalle convenzioni internazionali in materia di conservazione e valorizzazione del paesaggio, evidenzia alcune discordanze rispetto al compendio di norme contenuto nella Convenzione. Sono diverse le questioni sulle quali si generano incoerenze e fraintendimenti metodologico-applicativi.

La prima è sicuramente connessa alle definizioni di paesaggio e pianificazione e al ruolo attivo attribuito alle popolazioni che sono prioritariamente coinvolte nella percezione e nella costruzione della dimensione sociale del paesaggio, oltre che nella partecipazione al processo di costruzione del progetto di piano.

La Convenzione sin dalla declinazione della definizione di paesaggio attribuisce un ruolo fondamentale alle popolazioni nella sua percezione e cognizione. Ancor più impegna gli stati a riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità. Prevede altresì misure specifiche volte alla valutazione dei paesaggi tenendo conto dei valori specifici che sono loro attribuiti dalle popolazioni. Il Codice, invece, all’articolo 131, definisce piuttosto sbrigativamente il paesaggio come il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. Si evince che alle popolazioni non viene attribuito alcun ruolo attivo nella determinazione dei valori identitari del paesaggio quale luogo della vita quotidiana, della rappresentazione dei valori etici della società e della memoria individuale e collettiva. Un atteggiamento, quello del legislatore italiano, alquanto propenso a determinare la definizione del concetto di paesaggio come un dato di fatto, un dogma, figlio di un’interpretazione “esperta” che non lascia spazio alcuno alla dimensione sociale.

Passando alla definizione di pianificazione paesaggistica il Codice afferma che il territorio deve essere adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono, mentre la Convenzione definisce la “pianificazione dei paesaggi” come il processo formale di studio, di progettazione e di costruzione mediante il quale vengono creati nuovi paesaggi per soddisfare le aspirazioni della popolazione interessata.

Un aspetto che appare determinante nell’applicazione di questo dettato è costituito dal legame imprescindibile tra paesaggio e popolazioni contenuto nella Convenzione. La costante presenza della società civile e del compito a essa assegnato nel processo di costruzione degli apparati di pianificazione costituisce una discriminante fondamentale tra modalità di approccio metodologico alla determinazione dei principi generali, delle strategie e degli orientamenti ai fini della salvaguardia, della pianificazione e della gestione del paesaggio. Inoltre se nella Convenzione la pianificazione paesaggistica determina un processo dinamico in cui vengono assecondati i cambiamenti nelle e delle popolazioni, il Codice invece è orientato alla restituzione di un’immagine statica dello stato di fatto (facendo riferimento alle bellezze individue e d’insieme e alle zone di particolare interesse ambientale, rispettivamente ai sensi delle leggi 1497 e 1089 del 1939 e della 431 del 1985).

A fronte del ruolo palesemente identitario attribuito alle popolazioni, sia nel processo di riconoscimento e interazione con il paesaggio che in quello di condivisione del progetto di piano, delineato dalla Convenzione, nel Codice tale indicazione viene mediata attraverso processi partecipativi e forme di concertazione istituzionale rivolte ai “soggetti interessati” e alle associazioni portatrici di interessi diffusi (individuate ai sensi delle vigenti disposizioni in materia di ambiente e danno ambientale).

Fin da questo primo incrocio di orientamenti appare piuttosto chiaro il divario non solo semantico ma culturale tra i due testi normativi.

Tale diversità è insita anche nei comportamenti pianificatori assunti dalle Regioni che sinora hanno avviato (e in alcuni casi concluso) il processo di redazione dei nuovi strumenti di pianificazione paesaggistica che, da un lato, hanno saputo cogliere alcune delle innovazioni teorico-metodologiche introdotte dalla Convenzione, dall’altro, sono riuscite a conformare i propri piani ai dettati del Codice.

Le istanze formulate dalla Convenzione si riflettono spesso nell’approccio metodologico alla definizione della forma e dei contenuti del piano tentando innanzitutto di superare la tradizionale azione di tutela vincolistica del paesaggio, concepita per specifiche parti di territorio o categorie di beni. La centralità assunta dalla pianificazione e la concezione estensiva e integrata di paesaggio consentono di superare la limitatezza delle disposizioni volte a tutelare sia singoli oggetti che porzioni di territorio. Sotto questo profilo tutto il territorio può considerarsi paesaggio, così come sancito dalla Convenzione.

L’integrazione nella nozione di paesaggio di nuovi postulati disciplinari costituisce inoltre un segnale di innovazione metodologica nell’approccio alla pianificazione. Alcuni dei nuovi processi di costruzione degli strumenti di piano sono stati impostati attraverso un percorso che mette in relazione tra loro: approccio cognitivo, veicolato dalla Convenzione, relativamente alla percezione identitaria dei luoghi da parte delle popolazioni (i cosiddetti sedimenti immateriali, ovvero il patrimonio genetico-testimoniale delle popolazioni che vivono, e hanno vissuto, un territorio), oltre a quello più tradizionale insito nella cultura vedutistica italiana; approccio culturale, al cui centro vengono posti prioritariamente i sedimenti materiali, corrispondenti all’insieme dei beni paesaggistici vincolati ex lege e agli ulteriori inventari di beni architettonici, storico-testimoniali, etc.; approccio ecologico, orientato alla conoscenza evolutiva dei sistemi interagenti di ecosistemi; approccio strutturale, che mette in relazione temporale insediamento antropico e ambiente e interpreta processualmente le relazioni fra “paesaggio ecologico” e “paesaggio culturale”; approccio ambientale, incentrato sulla lettura degli aspetti abiotici (appartenenti principalmente alle scienze della terra) e biotici (riferibili alle scienze biologiche).

Tutto ciò sinora ha costituito l’unica via seguita dalla pianificazione paesaggistica, senza prefigurare e/o ammettere ulteriori opzioni esperibili nell’azione di piano e di gestione del paesaggio.

Appare oramai giunto il momento di abbandonare un paradigma esclusivamente “impositivo” che, come hanno dimostrato i fatti, ha portato a scarsissimi risultati in vent’anni di applicazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (con soli cinque piani paesaggistici regionali approvati e diversi da lungo tempo in fase di revisione) e i risultati sono sotto gli occhi di tutti sia in termini di consumo di suolo/paesaggio che di devastazione del territorio a causa di una quantomeno distratta gestione delle misure e delle azioni di prevenzione dei rischi idraulici e idrogeologici.

Il tradizionale modello operativo top-down andrebbe ripensato e ri-orientato verso strumenti e processi di pianificazione paesaggistica negoziata, strumenti pattizi, volontari e partecipativi, fortemente innovativi e aggregativi, atti a introdurre forme di gestione sostenibile per paesaggi in cui le realtà locali siano portatrici delle proprie istanze, anche attraverso percorsi proattivi e inclusivi, come ad esempio forme di amministrazione condivisa che prendano vita da alleanze tra cittadini e pubbliche amministrazioni, ponendo al centro dell’attenzione e del percorso progettuale l’attività di pianificazione connessa all’individuazione degli ambiti di paesaggio e alla definizione dei loro contenuti meta-progettuali (gli obiettivi di qualità paesaggistica).

Ormai sono molteplici e mature le esperienze che vanno nella direzione in cui il processo di pianificazione viene inteso soprattutto come pratica sociale. Queste “pratiche informali” hanno un nome e una loro, anche se pur breve, prassi empirica e sono i Contratti di paesaggio, esperienza avviata in Umbria oltre dieci anni fa con riferimento ai “territori montani di Foligno, Trevi e Sellano”, “al Trasimeno” e “ai territori dei comuni di Acquasparta, Avigliano Umbro, Montecastrilli e San Gemini”. L’Osservatorio regionale per la qualità del paesaggio umbro ha assunto tali Contratti quali strumenti di pianificazione territoriale negoziata, ascrivibili alla categoria degli strumenti decisionali inclusivi, inerenti ad azioni di tutela e valorizzazione del paesaggio, volti alla riqualificazione di aree particolarmente rilevanti o sensibili.

Tali strumenti partecipativi sono fondati su intese e accordi, con valore contrattuale, tra comunità locali e istituzioni.

I Contratti di paesaggio possono quindi coniugarsi efficacemente con gli ambiti di paesaggio che, suddividendo il territorio regionale in macroaree fino a perimetrarlo interamente, ne definiscono anche gli obiettivi di qualità paesaggistica, prestando particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. In quest’ottica la dimensione pattizia può facilmente agevolare la gestione del processo di pianificazione e progettazione paesaggistica, consentendo agli abitanti di svolgere un ruolo da protagonisti, propositivo e attivo, nella tutela e nella valorizzazione di un bene comune tanto prezioso.

L’elemento qualificante di tale approccio è costituito dal pieno coinvolgimento delle comunità locali. Gli abitanti, gli enti locali e le associazioni sono chiamati non solo a rendere conto degli impatti prodotti e dei possibili contributi delle loro azioni rispetto a un processo predefinito, ma a delineare essi stessi obiettivi, strategie e priorità per le scelte future. Così facendo la responsabilità di attenersi agli obiettivi (di qualità paesaggistica) prefissati è garantita dal fatto che tali finalità siano state definite e condivise localmente dalla collettività.

La componente attuativa, che nei Contratti si traduce generalmente nel Programma di azione, può essere garantita dalla mutuazione degli obiettivi di qualità paesaggistica, delineati per ogni ambito di paesaggio, quali linee guida per la definizione delle azioni progettuali, alle quali associare tempi di attuazione, soggetti responsabili e risorse a disposizione.

I tempi sono ormai maturi per abbandonare il tradizionale sistema top-down e intraprendere un approccio proattivo/negoziale orientato alla partecipazione e all’inclusione delle comunità nella formulazione e assunzione condivisa di visioni e decisioni con contenuti operativi (attraverso gli ambiti di paesaggio), oppure di progetti partecipati di paesaggio mediante modalità di governance collaborativa.

Gli abitanti dei nostri territori cosa devono ancora dimostrare, o che cosa gli manca, per assurgere al ruolo di protagonisti nelle scelte progettuali che andranno a incidere sul futuro dei paesaggi della loro quotidianità?

In un paese fragile e costantemente a rischio come il nostro un simile approccio dovrebbe essere preteso dalle comunità locali prima ancora che espresso dalle leggi, sia come forma di autodeterminazione comunitaria, sia come processo di legittimazione sociale nei confronti dei processi di pianificazione (che è insito nel principio di sussidiarietà).

In fin dei conti esiste nel nostro Paese una grande tradizione e varietà di dimensioni, organismi e domini amministrativi in grado di proporre geografie e compagini con un’ormai consolidata esperienza nella gestione di processi decisionali dal basso e applicabili al paesaggio, basti ricordare le unioni di comuni, le comunità montane, le aree interne, etc.

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Trattori in giro per l’Europa…contro l’Europa? http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2024/02/trattori-in-giro-per-leuropa-contro-leuropa/ Fri, 16 Feb 2024 13:16:54 +0000 http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/?p=16370 di Renata Lovati.

In questi giorni stiamo assistendo ad imponenti manifestazioni di agricoltori di tutta Europa, spesso spontanee e non facenti riferimento ad organizzazioni professionali e sindacali rappresentative, che portano all’attenzione della opinione pubblica e delle Istituzioni un profondo disagio della categoria.

Disagio legato in primis al profondo divario che c’è tra la quantità di lavoro e di passione presente nel ciclo produttivo agricolo e il reddito che ne deriva che, spesso, è pura sussistenza.

In moltissimi casi e in modo diffuso in tutta Europa queste manifestazioni hanno individuato la Politica Agricola Europea e, in particolare, la sua recente evoluzione greening, come la responsabile di questa dicotomia. E’ stato facile, per l’avanzante populismo e nazionalismo europeo con alcune tragiche presenze di estrema destra come in Germania, cavalcare queste proteste in funzione anti europea in vista delle prossime elezioni, nella speranza di un tornaconto elettorale.

Gli agricoltori firmatari di questa lettera credono che le ragioni del disagio siano molto più complesse e che sia necessario uno sforzo analitico importante per far che si che queste proteste creino il presupposto per affrontare il problema in modo serio e non in funzione del beneficio elettorale di qualche forza politica lasciando ai tantissimi partecipanti alle manifestazioni soltanto l’amaro in bocca.

LE DUE AGRICOLTURE

Fin dagli anni sessanta si è andata delineando una tendenza, ormai diventata strutturale, di una netta separazione tra una agricoltura delle grandi superfici, dei grandi numeri economici, della capacità di investimento e di accesso al credito, legata a commodities come cereali, carne, latte … ma anche frutta e orticoltura, che per semplicità chiameremo Agroindustria e, dall’altra parte, una agricoltura familiare molto legata al territorio, spesso marginale, di collina e di montagna ma non solo, con volumi produttivi spesso insufficienti a garantire investimenti, ma con un beneficio sociale immenso derivante dal presidio di un territorio spesso non agevole ma prezioso. Questa, sempre per semplicità, la chiameremo agricoltura contadina.

Le politiche agricole, nel corso degli utlimi 50 anni, hanno tendenzialmente trattato queste due agricolture nello stesso modo con il risultato di renderne sempre più forte il divario.

Dai dati ISTAT dell’ultimo censimento, si evince che le aziende familiari di piccole dimensioni si sono dimezzate, mentre le altre si sono rafforzate, non nel numero, ma nelle dimensioni, diventando sempre più grandi, più efficienti, con grandi capacità di avanzamento tecnologico e di incidenza sui mercati.

Una parziale risposta delle piccole aziende alla crisi è stata l’introduzione delle cosiddette “attività connesse”: quali la trasformazione e vendita diretta dei prodotti, l’agriturismo, l’ospitalità, le attività didattiche e sociali ecc, che hanno dato respiro a quelle aziende che, per vari motivi, si sono trovate nella condizione di utilizzare questa opzione creando non solo reddito ma anche occupazione.

Il rapporto diretto con i cittadini ha creato possibilità di scambi culturali e progetti condivisi.

LA POLITICA COMUNITARIA

Fino a pochissimo tempo fa e cioè prima della proposta del nuovo regolamento comunitario, la politica comunitaria, attraverso l’applicazione del sistema dei contributi, non ha quasi per nulla tenuto conto delle differenze tra le due agricolture: tanta più superficie avevi, tanto più contributo prendevi (primo pilastro) indipendentemente dalla tipologia della produzione, dal valore ambientale di questa, dal beneficio sociale in termini di occupazione ecc, riservando la parte di aiuto o all’investimento strutturale o al beneficio ambientale (es. biologico) una quota minoritaria del suo bilancio (secondo pilastro).

Questo bilancio, che in termini relativi assorbiva ben il 50% di tutte le risorse comunitarie e oggi si attesta sul 25%, in termini assoluti è rimasto invariato intorno ai 55 miliardi di euro l’anno (provenienti dalle tasse dei 400 milioni di cittadini).

Con la nuova programmazione, la UE ha cercato di invertire la tendenza consolidata diminuendo progressivamente i contributi a superficie (primo pilastro) e creando sistemi di integrazione al reddito vincolati ad alcuni obiettivi di carattere generale e legati ad bisogni di protezione ambientale, di benessere animale e di salute del cibo e dei consumatori.

LA QUESTIONE AMBIENTALE

Mentre il settore agricolo in questi anni si dibatteva da un lato nella ricerca di sempre maggiore produttività ed efficienza (agroindustria per semplificare) e dall’altro nella diversificazione e nella territorialità (agricoltura contadina sempre per semplificare), nella società europea prendeva sempre più rilievo e consapevolezza la questione ambientale.

Aree vaste con problemi di inquinamento delle acque superficiali e profonde, gravi carenze idriche, diminuzione della fertilità dei suoli, con alcuni casi di “desertificazione”, immissioni di CO2 e ammoniaca nell’atmosfera, presenza di metalli pesanti ecc. con conseguenze importanti sulla salute dei cittadini.

Una parte di queste problematiche ricade sulla responsabilità del settore agricolo, soprattutto in aree di grande concentrazione produttiva in corrispondenza di elevate concentrazioni antropiche (es. pianura padana, nord della Germania, Olanda e Danimarca, significative aree in Spagna e Francia ecc) per cui la UE, sotto la spinta dell’opinione pubblica e delle necessità epidemiologico-sanitarie, ha legato le sovvenzioni ai settori produttivi sia agricoli che industriali, a comportamenti ambientalmente sostenibili e ormai indilazionabili anche in funzione dei cambiamenti climatici.

Per il settore agricolo questo si è concretizzato in alcuni nuovi obblighi se si vuole continuare ad aver accesso ai contributi (rotazione obbligatoria delle colture, inerbimento invernale, diminuzione dell’apporto chimico di sintesi) e in alcuni obiettivi facoltativi coperti da risorse specifiche (agricoltura biologica, benessere animale, protezione delle api ecc). A nostro giudizio condizioni che, se correttamente sostenute e applicate, non vanno a deprimere i redditi (che sono depressi per altri fattori), ma addirittura li possono sostenere.

QUALI POLITICHE

A nostro giudizio sarebbe grave se la UE abbandonasse, sotto la spinta della protesta e rispondendo pavida a spinte populiste, la visione di una agricoltura agroecologica che fa la sua parte nella difesa dell’ambiente e contribuisce alla lotta ai cambiamenti climatici riducendo in modo progressivo la propria impronta ecologica.

Questo può avvenire se si tiene ben presente quanto esposto precedentemente: l’agricoltura “agroindustriale” ha bisogno di forte sostegno nella riduzione dell’impatto chimico, nell’adeguamento tecnologico al fine di ridurre le emissioni, nella diminuzione delle concentrazioni eccessive di animali da reddito in certe aree sensibili, nell’avere protezioni assicurative contro le calamità ecc; l’agricoltura “contadina” di piccole dimensioni, familiare, di aree interne, quella che si rivolge a mercati locali e che produce beni originali e fortemente legati alla territorialità e offre servizi ai cittadini, ha tutt’altri bisogni: semplificazione burocratica, servizi sanitari e sociali di prossimità, sostegno alle condizioni impervie (montagna), sostegno alle produzioni di nicchia, sostegno alla diffusione e implementazione di tecniche agro-ecologiche, servizi gratuiti di assistenza tecnica e soprattutto un sostegno al reddito che ne riconosca il valore sociale, ambientale ed ecosistemico. Senza di ciò questa agricoltura sparirà in un breve lasso di tempo.

Ci vogliono quindi due politiche differenziate, ma integrate.

Una riduzione della tassazione indifferenziata può diventare un ulteriore fattore positivo per grandi aziende che già fanno reddito, ed essere al contempo insufficiente per aziende che non superano la sussistenza.

L’Europa da sessant’anni, attraverso i denari impiegati nella Politica Agricola, ha contribuito ad una crescita complessiva del settore, ad una sua valorizzazione professionale, alla difesa degli spazi non edificati con il semplice permanere degli agricoltori sul territorio.

Oggi questo tipo di politica non risponde piò ai bisogni del settore e può contribuire ad acuire le differenze tra le agricolture: contributi indifferenziati premiamo solo le grandi aziende e marginalizzano le piccole. Ad esempio dare lo stesso premio capo/vacca sull’ecoschema 1 ad una azienda di mille vacche e ad una di cinquanta, magari in zona svantaggiata, non ha senso.

Per affrontare con serietà queste problematiche ci vorrebbe una classe dirigente non legata a facili slogan e a interessi di brevissima portata e spesso in funzione di labili vantaggi elettorali.

Anche le Organizzazioni Professionali agricole hanno la responsabilità di non accodarsi a questi facili slogan, ma di guidare un profondo processo di ridefinizione del ruolo dell’ agricoltura nella attuale fase economica, sociale e soprattutto ambientale.

Non è, a nostro giudizio, negando e ricusando una politica per altro moderatamente greening che si risolvono queste contraddizioni. Anzi il rischio è di dare un contentino alla protesta senza aggredire la sostanza dei problemi.

Dario Olivero, Renata Lovati – Cascina Isola Maria, Bio Albairate

Gabriele Corti – Cascina Caremma Bio Besate

Alberto Massa Saluzzo – Presidente Distretto Dinamo

Fabio Di Stefano – Il Frutteto Botanico Bio Albairate

Raffaele De Cechi – Cascina Lema Bio Robecco sul Naviglio

Alberto Bosoni – S.S. Agricola del Parco Bio Abbiategrasso

Giovanni Molina – Agronomo Vigevano

Tommaso Gaifami – Agronomo Milano

Niccolò Reverdini – Cascina Forestina Bio Cisliano

Massimo e Camilla Crugnola – Orti bio Broggini Varese

Coop.Sociale Cascina Contina Rosate

Rosa Zeli – Az.Agr .Corte Lidia Bio Viadana

Patrizio Monticelli – Presidente Desr Parco Agr.Sud Milano Milano

Peppe Galuffo – Cascina Poscallone Bio Abbiategrasso

Stefano Salteri – Cascina delle mele Bio Vittuone

Marco Cuneo – Cascina Gambarina Bio Abbiategrasso

Maurizio Gritta in rappresentanza CDA Coop agricola.Iris Bio

Gas ExAlge Milano

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Rimettere l’IMU sulla prima casa? Riflessioni per un dibattito http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2023/03/rimettere-limu-sulla-prima-casa-riflessioni-per-un-dibattito/ http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2023/03/rimettere-limu-sulla-prima-casa-riflessioni-per-un-dibattito/#comments Sun, 26 Mar 2023 08:33:59 +0000 http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/?p=15884 Gaia Baracetti, autrice di “Perché bisogna abolire i contributi all’agricoltura“, ci trasmette queste sue riflessioni su un tema che connette il rapporto tra l’IMU e la prima casa. Un contributo volutamente “provocatorio” che pubblichiamo ritenendolo utile per una discussione opportuna.

Nessun politico ne avrebbe il coraggio, in Italia oggi. Eppure sarebbe una misura di equità, lungimiranza e tutela dell’ambiente di cui beneficerebbe l’intera collettività. Per molti motivi.
Innanzitutto, quando si parla di introdurre una tassa, non necessariamente si parla di aumentare il livello di tassazione totale, anzi: sarebbe meglio che così non fosse. Mettere l’IMU sulla prima casa significherebbe accumulare risorse che poi non sarebbe più necessario reperire altrove – per esempio dalla tassazione sul lavoro, o dalle innumerevoli marche da bollo o ticket che sono la forma più regressiva di tassazione…

Non è nemmeno necessario che i più poveri paghino: niente impedisce, come si fa per il reddito e com’era prima, di stabilire una soglia sotto la quale si è esenti. Questo dovrebbe però valere solo per case molto piccole: il problema principale, infatti, è lo spazio che le nostre case occupano. In Italia di spazio ce n’è poco, pochissimo (abbiamo una densità di popolazione più alta di quella della Cina), e lo sprechiamo in modo assurdo – ad esempio permettendo a chiunque di costruire case enormi ovunque, con giardini da signore rinascimentale, con tutto il corollario di strade, luci, tubature, parcheggi, mezzi pubblici e raccolta rifiuti che devono per forza seguire l’espansione infinita della città. Prima, almeno, si pagavano in parte questi servizi con la tassa sulla casa – ma da quando non c’è più, un individuo o una famiglia si gode la sua casona senza spese, mentre tutti gli altri – compresi quelli costretti in piccoli appartamenti in zone trafficate – pagano tanto quanto lui per garantirgli tutte le comodità e servizi.

Le tasse, come principio generale, non dovrebbero servire soltanto per raccogliere soldi ma anche per incoraggiare comportamenti considerati virtuosi e scoraggiare comportamenti che danneggiano la collettività. Anche per questo è sbagliato tassare così pesantemente il lavoro – che è un contributo del singolo alla società – e poco o nulla la rendita e la proprietà, che dà benefici al singolo che ne gode a spese di tutti gli altri che ne sono esclusi.
L’IMU, quindi, dovrebbe essere innanzitutto un modo per compensare la collettività dei costi che la nostra proprietà impone. In primis perché lo spazio che chiamiamo nostro non può più appartenere a nessun altro, né singolo, né comunità, né – ce ne dimentichiamo sempre! – natura selvatica. Lo spazio della nostra casa diventa lo spazio negato al vicino, al povero, alla piazza e al capriolo. Pagarci una tassa sopra è un modo per risarcire gli altri di questa perdita irreversibile, e ci disincentiva dall’arraffare più spazio possibile perché tanto è gratis; nonché, come si è detto sopra, serve per contribuire ai servizi di cui usufruiamo, e più grande è la casa, più se ne rendono necessari per ogni persona.
Inoltre, le tasse secondo la nostra costituzione dovrebbero essere progressive; aver eliminato quasi del tutto una tassa sulla proprietà viene meno a questo principio fondamentale, trattando allo stesso modo chi ha la villa e chi sta in un monolocale.

Non solo.
L’espansione urbana antiestetica e disordinata a cui ci siamo ormai abituati è in realtà un fenomeno estremamente recente. Le città storiche sono tutte costruite allo stesso modo ovunque nel mondo, seguendo la stessa logica: le case sono strette, spesso a più piani, attaccate il più possibile e vicine ai servizi essenziali. Questo perché l’umanità ha sempre saputo che lo spazio è prezioso. Che vicini si vive meglio. E che spostarsi consuma energie. Quando ero in visita a Bruxelles, un’amica mi ha spiegato che le case sono così strette perché quando furono costruite si pagava la tassa sul suolo occupato, e quindi ognuno cercava di minimizzare la propria impronta. In montagna ho sentito storie simili: lo spazio era talmente scarso e prezioso che nessuno avrebbe sprecato il proprio orto costruendoci sopra un villone su un piano. Una IMU per tutti gli immobili dovrebbe avere una funzione simile: scoraggiare lo sperpero di spazio. Vuoi allargarti? Paghi. Fai un uso razionale dello spazio? Risparmi.

Non dovrebbe sfuggire il fatto che sono queste città storiche, dense ma non prive di verde, varie ma armoniche, che andiamo a visitare per vedere qualcosa di bello. Nessuno fa il turista nelle periferie di villette e capannoni, nessuno va a vedere i casermoni popolari, le monofamiliari con parcheggio, le case-cubo dei tempi del boom. Tutti le vogliono avere – forse per sentirsi come re con mille metri quadri di regno – ma nessuno le apprezza. Avete mai visto un turista che si fermi a fotografare una via asfaltata fiancheggiata da case stile dopoguerra?
Tutte queste nuove tipologie abitative spreca-spazio non solo sono brutte, non solo sottraggono spazio alla collettività: sono tra le principali responsabili del traffico che soffoca le nostre città e, al tempo stesso, sua conseguenza. In un tempo senza automobili, costruire città a bassissima densità abitativa sarebbe stata una follia: per comprare il pane o andare al lavoro ognuno avrebbe dovuto camminare ore ogni giorno. L’automobile ha reso possibile vivere lontano da tutto, ma paradossalmente lo ha reso anche desiderabile: per sfuggire al traffico si va a vivere fuori città, e poi quel traffico si contribuisce a crearlo quando si è costretti a tornarci per fare qualunque cosa che non sia mangiare a casa propria o dormire.

Tutto è cambiato con l’auto, ma non in meglio. Il singolo proprietario di villone con giardino magari è contento, se la benzina e il tempo perso nel traffico non gli sembrano un problema. Ma la città risente dell’inquinamento che le masse di pendolari producono, e tutto l’ambiente soffre: per permettere la costruzione di case così enormi con spazi così grandi intorno, sempre più lontane dal centro, si sono costruite strade asfaltate, che necessitano di manutenzione e impermeabilizzano il suolo; si è portata l’acqua e l’elettricità – e più tubi corrono a portare l’acqua, e più lontano vanno, più aumentano le possibilità di perdite, mentre l’inquinamento luminoso causato dall’estendersi delle luci pubbliche e private che seguono le case ha privato tutti della bellezza di un cielo stellato. Nessuno vuole vivere in buie periferie, e quindi la vecchia campagna misteriosa di un tempo oggi è illuminata come il parcheggio di un centro commerciale. Ancora: i camion dei rifiuti devono fare sempre più strada, aumentando il costo ambientale pro capite della raccolta differenziata, gli autobus hanno bisogno di nuove fermate, e così via.
E tutte queste cose le paghiamo tutti indipendentemente da dove abitiamo; paghiamo per gli spreconi anche se siamo virtuosi. Certo, la TARI viene calcolata anche in base all’estensione della casa, ma quello che manca sono le pertinenze e il giardino. È questo il problema. Il motivo principale per cui bisognerebbe rimettere l’IMU sulla prima casa è di creare l’occasione per ridisegnare questa tassa perché soppesi il grande lusso dello spazio e includa anche i giardini – in alcuni casi davvero enormi, ma, anche quando sono piccoli, capaci tutti assieme di mangiarsi il poco che resta di boschi e campagne.
Non è solo una questione di bellezza. La terra ci serve – per mangiare.

Chiunque abbia provato ad avviare un’attività agricola senza averla ereditata si sarà accorto che in molte zone è praticamente impossibile ormai. I terreni costano e sono troppo frammentati, le strutture mancano e le norme impediscono di costruirle vicino alle case, e le case sono dappertutto, tutto è recintato, bloccato, ci sono conflitti ovunque… Questo è in gran parte una conseguenza dell’espansione della città dentro la campagna: strade, case e parcheggi si sono mangiati quelli che una volta erano fertili campi e bellissimi prati stabili. L’estensione della periferia ha creato necessità di supermercati e centri commerciali dotati di immensi parcheggi perché tutti si muovono in macchina, mentre cittadini facoltosi hanno comprato case con stalle e fienili e li hanno trasformati in gigantesche depandance per le loro ville: le mucche accudite dalle famiglie di un tempo sono state sfrattate assieme a tutto ciò che era autenticamente contadino e sono finite ammassate in enormi capannoni. Lo stile “rustico” è sbocciato a spese della vita rustica, quella vera. E, come beffa finale, spesso i cittadini che hanno voluto la casa in mezzo al verde poi pretendono che quel verde sia ordinato e senza vita: si lamentano se canta il gallo, se si sente puzza di stalla, se passano le pecore, se l’erba osa crescere appena appena la falciano senza pietà… E siccome continuiamo a mangiare uova e formaggi, e da qualche parte bisogna pur produrli, questo ha significato la concentrazione dell’allevamento nelle poche zone in cui è ancora possibile, magari con gli animali chiusi in grigi hangar dove non danno fastidio, anziché in piccole stalle vicino alle case o all’aperto nei prati, come dovrebbero stare.
Per chi vorrebbe tornare all’agricoltura tradizionale, su piccola scala, tutto questo è un incubo. Con le migliori intenzioni del mondo di produrre cibo in maniera sostenibile, di tenere gli animali in piccoli numeri, seguiti come si deve, permettendo loro una vita naturale, si fa tanta, troppa fatica a trovare uno spazio adeguato, ci si scontra con norme assurde, vicini vendicativi, e per quanto lontano si vada a cercare un po’ di spazio ci si ritrova sempre circondati da enormi giardini inutilizzati – per bellezza, per avere spazio vuoto attorno, per far correre il cane ogni tanto, per prendere il sole o fare griglie, per tenere un triste asinello solitario… per gli animali utili, quelli che producono cibo per tutti, non è rimasto più spazio; un campo da coltivare costa un occhio della testa, perché ne restano così pochi ormai… e quindi gli italiani importano cibo prodotto distruggendo foreste altrui.
Non è un caso che molti dei neo-rurali, dei nuovi contadini, dei giovani che “tornano alla terra”, sono gli stessi che hanno ripreso a disboscare la montagna: in pianura non c’è più posto!

Chi non ha provato la rabbia di vedere i più benestanti tra i propri concittadini potersi permettere immense recintate estensioni di nulla, mentre chi non è già ricco non trova lo spazio sufficiente per un orto commerciale o un pollaio come si deve, non può capire il senso di ingiustizia che si prova per questo mondo capovolto trattato come fosse normale.
Non è solo questione di cittadini: anche i contadini, non pagando l’IMU sui terreni agricoli né, come tutti, sui giardini, una volta ereditata o comprata una tenuta possono sprecarne gran parte senza conseguenze economiche.
E non è nemmeno finita qui. Chiunque abbia passato un po’ di tempo in vivai o consorzi agricoli avrà presente la scena: un cliente o una giovane coppia che si appoggiano al bancone e sciorinano una lista di pesticidi ed erbicidi che gli servono per il “giardino” – perché tutti vogliono il prato inglese, costi quel che costi, e le piante di proprio gradimento anche se vengono regolarmente attaccate da insetti che ci sentiamo in perfetto diritto di sterminare. Tra irrigazione (con acqua potabile!), pesticidi, erbicidi, e consumo di carburanti per lo sfalcio, i giardini privati sono uno dei peggiori buchi neri ecologici dei paesi occidentali moderni.

La terra è fonte di ricchezza. Non per niente esiste una teoria economica, che alcuni stanno riscoprendo, che si chiama georgismo e propone di tassare soltanto o principalmente la terra e le risorse naturali, perché è da essere che viene tutto ciò che abbiamo, e chi ne ha diritto d’uso deve qualcosa a tutti gli altri.
Nel nostro paese è difficile acquisire terra e proprietà, ma facile tenersele – dovrebbe essere il contrario. Le tasse sull’eredità sono basse, e così anche quelle sulla proprietà, mentre avere accesso al credito è difficile e costoso e quindi una parte significativa di ogni investimento va alle banche, non a spese produttive.
Un paese organizzato in questo modo non è equo: è fossilizzato e iniquo. Una tassa sulla proprietà risolverebbe in parte tutti i problemi finora elencati. Chi non riesce a permettersi questa tassa si prenderà un’abitazione o un terreno più piccolo, oppure – e questo sarebbe uno degli obiettivi – inizierà a fare un orto o allevare qualche animale utile nella propria tenuta, così da recuperare i costi, oppure ad affittare a chi non trova casa o terra un po’ della propria. E per non penalizzare i più poveri si potrebbe stabilire una soglia in metri quadri sotto alla quale non si esige nessuna tassa, e addirittura redistribuire parte degli introiti a chi non ha nulla e paga un affitto.

Se qualcuno possiede edifici o terreni che non può mantenere e non riesce a vendere neanche a un prezzo più basso, si potrebbe istituire un sistema per cui questi vengono acquisiti dagli enti pubblici e trasformati in aree protette, orti comunitari o alloggi sociali. Ricominceremmo a stare assieme, anziché ognuno rinchiuso nel proprio giardino.
Ci sarebbero benefici ulteriori. Tassando la proprietà immobiliare l’evasione diventerebbe quasi impossibile, a differenza del lavoro che può non essere dichiarato o dei capitali che possono essere spostati. E la truffa per cui alcuni prendono residenze fittizie in seconde case per non pagare l’IMU potrebbe finire se si tassassero anche le prime case. Si potrebbe usare un IMU comprensivo della prima casa anche per ridurre i costi dell’imposta di registro: possedere una casa dovrebbe avere un costo, ma non acquistarla o cambiarla. Come si legge in questo articolo di Franco Osculati sul tema, “un’operazione di questo tipo potrebbe essere intesa come un’iniziativa a favore dei giovani, che più dei genitori o dei nonni sono interessati a vendere e comprare case” (si potrebbe aprire qui tutto un discorso sulle parcelle dei notai…).

Non sarebbe un sistema perfetto: finché esistono diseguaglianze di reddito e di rendita estreme come quelle odierne, chi guadagna molto più degli altri non avrà problemi a pagare le tasse per la propria casa di lusso e il proprio enorme giardino. Un motivo in più per intervenire anche sulle diseguaglianze – ma questo è un argomento per un’altra volta.

(Immagine di Paolo Baldi).

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http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2023/03/rimettere-limu-sulla-prima-casa-riflessioni-per-un-dibattito/feed/ 1
Pale eoliche nel Montefeltro, a rischio il paesaggio della Gioconda http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2023/02/pale-eoliche-nel-montefeltro-a-rischio-il-paesaggio-della-gioconda/ Thu, 02 Feb 2023 17:31:37 +0000 http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/?p=15797 A cura di Italia Nostra.

Sette pale eoliche alte 180 metri, questo è Badia del Vento, un ecomostro che, se autorizzato, deturperà l’Alta Valmarecchia e l’area dello storico Montefeltro che ospita scorci riconosciuti tra i più suggestivi dell’Appennino, quali i Balconi di Piero della Francesca e le morbide colline del paesaggio della Gioconda.

Qualora il progetto venisse approvato dalla Regione Toscana, l’impianto eolico vedrebbe l’installazione di sette turbine alte 180 metri, con rotori di diametro pari a 136 metri inseriti su mozzo alto 112 metri che, una volta posizionate, supererebbero ampiamente i 1200 metri slm nonostante le disposizioni previste dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio che tutelano le zone appenniniche localizzate sopra questa quota.

Presso la Regione Toscana è stata presentata istanza di autorizzazione per l’edificazione di un impianto eolico industriale di grande taglia nel comune di Badia Tedalda (Arezzo) al confine con la Regione Emilia Romagna lungo il crinale che da Poggio Val d’Abeto si dirama sul Monte Loggio verso il sottostante Monte Faggiola. La documentazione riguardante il progetto è consultabile al seguente indirizzo: https://www.regione.toscana.it/-/paur-provvedimento-autorizzatorio-unico-regionale

La vistosa alterazione del paesaggio, data dall’innalzamento delle turbine, sarebbe nettamente percepibile in Romagna nei comuni di Casteldelci (compreso il centro storico e l’antico borgo di Gattara), Pennabilli e Sant’Agata Feltria in provincia di Rimini, nonché nel comune di Verghereto in provincia di Forlì Cesena e a Badia Tedalda (principalmente nella frazione di Rofelle), in provincia di Arezzo.

Turbine eoliche alte 180 m (come un grattacielo di 60 piani) e con rotori di diametro pari a 136 m (la stessa altezza della cupola di San Pietro), andrebbero ad impattare negativamente sul territorio, danneggiandone gli aspetti naturalistici e paesaggistici, limitando fortemente ogni prospettiva di sviluppo e valorizzazione territoriale (quali il turismo escursionistico e storico-culturale di cui si è registrato un forte aumento negli ultimi anni) con una netta svalutazione di tutto il patrimonio che ricade nel campo visivo di questi macchinari. Tale aspetto è ancora più evidente se si considera che l’impianto non rispetta i 7 Km di distanza, di numerosi beni architettonici e nuclei storici tutelati, previsti dal D.Lgs. 50/2022 così come non tiene conto della vicinanza a siti di importanza comunitaria e aree naturali protette. Chiese, edifici religiosi, torri, castelli e altre architetture storiche ubicate nei comuni di Casteldelci, Pennabilli, Verghereto, Badia Tedalda, Sestino, sarebbero gravemente sfregiate dall’innalzamento di queste turbine, così come sarebbero sfregiate aree naturali protette quali la Riserva Naturale dell’Alpe della Luna, il Monte Fumaiolo, la ripa della Moia, i fiumi Marecchia e Senatello, il borgo di Petrella Guidi, il Monte Carpegna, il Torrente Messa, il Poggio Miratoio, il Parco e la riserva naturale del Sasso Simone e Simoncello.

Si tratta di una installazione estremamente impattante anche per altri aspetti, basti pensare all’inquinamento acustico, ai pericoli per la avifauna locale e ai danni al territorio, con l’abbattimento non compensabile di alberi e di specie arboree, causati dai mezzi di trasporto eccezionali per raggiungere i crinali nonché dall’innalzamento delle gigantesche torri e dal montaggio delle pale. In aggiunta, devono essere considerate le opere per la realizzazione delle fondazioni delle torri, per lo sbancamento del terreno e delle formazioni rocciose con allargamento delle strade e dei sentieri presenti, per le installazioni delle piazzole, per l’interramento dei cavidotti in un territorio notoriamente fragile e a rischio idrogeologico.

Agli impianti di produzione delle energie rinnovabili dovrebbero essere destinate superfici idonee secondo un piano regolatore nazionale, utilizzando zone dismesse e da riqualificare oppure superfici già edificate per installazioni di fotovoltaico compatibili con il territorio e non dovrebbero essere prese d’assalto aree incontaminate e di alto valore paesaggistico ed ecologico, quali i crinali appenninici ricchi di storia, bellezza e biodiversità. Se, come previsto dalla Convenzione Europea del Paesaggio e dalla Costituzione italiana, il paesaggio e i beni culturali sono patrimonio comune, allora questo patrimonio deve essere tutelato e non può essere devastato da opere così invasive che, sotto la falsa bandiera della transizione ecologica, ci portano dritto alla devastazione di una delle ricchezze più importanti del nostro Paese compromettendo in modo irreparabile lo sviluppo del turismo.

Si confida sul fatto che la Regione Toscana, chiamata ad esprimersi sull’emissione del provvedimento autorizzativo, tenga in debita considerazione gli impatti estremamente negativi sul Paesaggio e sul turismo anche dell’Alta Valmarecchia e della zona di Verghereto e che non esistono logiche di confine per la tutela dei territori e dei loro patrimoni.

Antonella Caroli, Presidente nazionale Italia Nostra
Massimo Bottini, Italia Nostra Valmarecchia

La provocazione grafica di Italia Nostra, ovvero l’accostamento del capolavoro Leonardesco allo sfondo paesaggistico “moderno” pullulante di pale eoliche, ha destato molte reazioni e certamente può essere considerato come un riuscito strumento per allargare un dibattito che, purtroppo, però pare essersi gravemente assestato su posizioni di difficile mediazione.
Tanto che il presidente di Legambiente Toscana (anche responsabile nazionale del Paesaggio della stessa associazione) ha così commentato: «La polemica su Leonardo è fuori dal tempo. Come se non fossimo nella più grave crisi climatica ed energetica della storia umana. Questa sensazione, per la verità fastidiosa, torna ogni qual volta ascoltiamo argomentazioni benaltriste. Occorre ben altro: risparmiare, efficientare, ricorrere all’idroelettrico, magari persino al nucleare. Tutto, tranne le rinnovabili. Quando invece la comunità scientifica e la tecnica ci indicano proprio nelle rinnovabili e nel loro modello distribuito la via maestra per affrontare la crisi nel modo più efficace, sicuro e pulito. Gridare allo scempio del paesaggio della Gioconda ci pare, a dir poco, temerario. Non solo e non tanto perché recenti studi hanno collocato quello sfondo nella campagna piacentina e non in Valmarecchia, quanto soprattutto perché scomodano in modo improprio il genio di Leonardo; ossia: la quintessenza dell’intelligenza umana messa al servizio del progresso. La bellezza che scaturisce dalle opere leonardiane non è infatti mai fine a se stessa, ma è sempre connessa a una volontà integerrima di migliorare la condizione della nostra specie».

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Consumo di suolo: bilancio di un anno. Solo ombre nel 2022 per il sud-est di Milano http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2023/02/consumo-di-suolo-bilancio-di-un-anno-solo-ombre-nel-2022-per-il-sud-est-di-milano/ Thu, 02 Feb 2023 10:08:07 +0000 http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/?p=15794 A cura dell’Osservatorio permanente contro il consumo di suolo e per la tutela del paesaggio del Sud Est Milano.

Il bilancio che facemmo nello scorso anno lasciava intravedere una fioca luce, quest’anno dobbiamo a malincuore registrare che le cose continuano a peggiorare.
Il Sud Est Milano, ha perso nel 2021 altri 10 ettari di suolo, valore simile a quello del 2020. Il comune peggiore è Paullo con 5,7 ha. Tra i 15 comuni dell’area omogenea Sud Est Milano, solo Colturano, Pantigliate, San Donato Milanese e San Zenone al Lambro non hanno consumato suolo.

Ma quello che ci fa temere per il futuro sono le parole dei sindaci, intervistati dal Cittadino (il Brindisi dei sindaci) sulle cose fatte e i progetti per il futuro. Nessuno ha nemmeno accennato al consumo di suolo o alla tutela della bellezza del paesaggio, solo in qualche rara e lodevole eccezione si è parlato di verde, per il resto le parole usate dai sindaci per raccontare l’anno chiuso e prevedere il futuro sono state: grandi opere, parcheggi, rotatorie, nuova viabilità, nuove strutture, rivoluzione industriale.

Alcuni progetti sono già annunciati e alcuni rischi compaiono all’orizzonte. A Melegnano è in arrivo un Data Center che, con le strutture di corredo, sigillerà oltre 200mila metri quadrati di suolo agricolo, il 4% dell’intero territorio comunale. Resta ancora aperta la vicenda San Carlo, che avrebbe un impatto maggiore. È stata poi avviata una variante al PGT, le cui nefaste premesse sono state annunciate dall’assessore nell’intervista sopra citata.
A San Donato restano ancora aperti i due grandi interventi ipotizzati dalla precedente amministrazione: edilizia sia privata sia pubblica sul Pratone e Sport City Life nell’area di Cascina San Francesco.
A Colturano è stata avviata la variante al PGT.

Qui l’analisi integrale e il bilancio riassunto dall’Osservatorio.

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