di Legambiente Schio Val Leogra
Comunicato del 06.11.2024
Ci risiamo: il suolo, un bene comune che si può sacrificare in nome di ipotetici futuri benefici economici (a favore di chi?) derivanti da un modello di sviluppo che ha portato alla crisi climatica i cui effetti si fanno sentire sempre più frequentemente e intensamente.
Nel 1972 è stato pubblicato uno studio del MIT sui limiti dello sviluppo e le conclusioni degli scienziati furono chiare: se l’attuale tasso di crescita dell’inquinamento e dello sfruttamento delle risorse naturali continuerà inalterato, i limiti di sostenibilità su questo pianeta saranno raggiunti entro il XXI secolo, con sconvolgimenti climatici e socioeconomici che renderanno critiche le condizioni di vita di miliardi di persone.
Tra le risorse naturali il suolo rappresenta una delle voci più importanti e delicate, ma continuiamo a consumarlo senza sosta, mantenendo saldamente il Veneto al secondo posto in Italia per consumo di terreno naturale.
Ricordiamo inoltre che in Veneto nel 2015 gli eventi estremi furono 4 e nel 2020 18, nel 2024 siamo arrivati a 40 (e l’anno non è finito) e a Schio siamo già in una situazione di sovrasfruttamento del territorio con una percentuale di suolo impermeabilizzato che sfiora il 40% del totale (se si esclude il territorio collinare e montano).
In questo quadro si inserisce la costruzione a SS. Trinità di un nuovo supermercato che impermeabilizzerà circa 16000mq di terreno, a qualche centinaio di metri da uno già esistente e che verrà dismesso.
Siamo di fronte alla perdita netta di più di 2 campi di calcio di suolo naturale, senza che sia prevista alcuna rinaturalizzazione di altro terreno impermeabilizzato.
Sa di presa in giro vedere sui documenti riguardanti questo intervento che si parla di “Benefici Ambientali con aumento della biodiversità” perché ci sono alberi nuovi lungo la nuova strada e arbusti sulla nuova rotonda; non una parola sulle opere di mitigazione delle bolle di calore e neppure sul destino del fabbricato che verrà dismesso, che secondo noi dovrebbe quanto meno essere rinaturalizzato, magari creando un piccolo bosco urbano.
Tutto secondo norme e regolamenti, certo, ma norme e regolamenti che devono essere cambiati perché la situazione ambientale è drammaticamente mutata, le previsioni anche recenti non sono più valide: siamo in un’epoca di emergenza climatica che ci impone un cambio radicale di rotta e non possiamo più permetterci di perdere altro suolo, e invece continuiamo ad agire in questi tempi straordinari come vivessimo in tempi normali.
E poiché sembra che ogni scelta venga fatta su basi economicistiche ISPRA è riuscita a stimare un costo annuale per ettaro derivante dalla perdita dei suoi servizi ecosistemici (stoccaggio e sequestro di carbonio, qualità degli habitat, produzione agricola, impollinazione, regolazione del microclima, rimozione di particolato e ozono, protezione dall’erosione, regolazione del regime idrologico, disponibilità di acqua, purificazione dell’acqua): sono 88.000,00 euro per ciascun ettaro di suolo consumato/impermeabilizzato. È vero: non c’è uscita di cassa, non c’è pagamento, ma basta pensare che in Italia nel periodo 2013/2023 sono stati spesi oltre 13,8 miliardi di euro in fondi per la gestione delle sole emergenze meteo-climatiche (dati Protezione civile). La perdita di suolo genera quindi un “danno” non soltanto sotto il facilmente intuibile profilo ambientale, ma anche sotto quello economico-finanziario: un aspetto, purtroppo, poco valutato dalle nostre amministrazioni: a Schio questi nuovi 16000mq di terreno perso costeranno 140.800€/anno… per sempre…
Quanto sopra per ribadire la nostra contrarietà a questo intervento urbanistico di cui non cogliamo l’utilità per il bene comune, chiedendo ai decisori pubblici, e anche gli investitori privati, di valutare ogni volta se le decisioni che si accingono a prendere rispondono ai principi di responsabilità sociale, anche nei confronti delle future generazioni, come chiesto dall’art 41 della Costituzione Italiana.
Immagine: Supermercato già esistente in via SS Trinità, a poche centinaia di metri dall’area in cui dovrebbe sorgere quello nuovo.
NON SERVE UN GLACIOLOGO PER CAPIRE CHE L’HINDU KUSH E’ – letteralmente – AGLI SGOCCIOLI
Gianni Sartori
Dai versi di Subterranean Homesick Blues (Bob Dylan. 1965) “You don’t need a weatherman to know which way the wind blows” (non serve un meteorologo per sapere da che parte soffia il vento) avevano preso ispirazione i militanti della sinistra statunitense rivoluzionaria (almeno a livello di intenzioni…) conosciuti come Weatherman, the Weathermen o anche Weather Underground. Il verso era stato ripreso pari pari come titolo per un documento distribuito al nono congresso dell’SDS (Students for a Democratic Society) dalla componente più radicale (Revolutionary Youth Movement) a Chicago il 18 giugno 1969. Annunciando la nascita di una “forza combattente bianca” che insieme a quelle dei Neri (Black Panthers), Portoricani (Young Lords), Nativi (American Indian Movement) e Chicanos (Brown Berets, di origine messicana) avrebbe portato – nientemeno – alla “distruzione dell’imperialismo statunitense e alla creazione di un mondo privo di classi: un mondo comunista”. Sappiamo poi come è andata a finire. Comunque, per analogia, oggi possiamo affermare che non c’è bisogno di un esperto in glaciologia per sapere come i ghiacciai del pianeta stanno semplicemente fondendo. Scrivo “fondendo” in quanto, come ha fatto osservare qualche addetto ai lavori “ i ghiacciai non si sciolgono, ma fondono. Il motivo è tutto nella spiegazione scientifica del fenomeno che porta al passaggio da stato solido (ghiaccio) a liquido (acqua)”. Per cui definire la sostanziosa, evidente riduzione della massa ghiacciata, sia sulle montagne che ai poli, come “scioglimento” non sarebbe corretto. Risparmio al lettore eccessive spiegazioni chimico-scientifiche In soldoni, “soluzione” sarebbe quella dello zucchero (il “soluto”) nel caffé (il “solvente”). Nel caso dei ghiacciai si dovrebbe parlare di “fusione”, ossia di un cambiamento di stato: appunto da quello solido a quello liquido. E’ questo l’odierno dramma vissuto in particolare dalle alte montagne dell’Asia (HMA, High-Mountain Asia), dall’Himalaya a sud e a est all’Hindu Kush a ovest e al Tien Shan a nord. Comprendendo , oltre all’altopiano del Tibet, anche le sub-catene del Karakorum, del Pamir-Alay e del Kunlun. Nel loro insieme costituiscono quello che viene definito il “terso polo” (o anche “water towers”). Fonte di alimentazione per gran parte del sistema fluviale asiatico (Indo, Brahmaputra, Gange, Yangtze, Fiume Giallo, Mekong, Salween…). A causa del cambiamento climatico, l’Asia meridionale sta rischiando di perdere almeno il 75% del volume dei suoi ghiacciai entro questo secolo. Un processo apparentemente irreversibile e forse ancora più accelerato nell’Hindu Kush. Stando almeno all’accorato appello lanciato in questi giorni da Shehbaz Sharif, primo ministro del Pakistan, al summit – deludente e inconcludente – di Baku. Ricordando che i cambiamenti climatici estremi hanno colpito ripetutamente il suo Paese, in maniera sproporzionata rispetto alle responsabilità in materia di emissioni. Citando a titolo di esempio le inondazioni monsoniche del 2022 che hanno causato migliaia di vittime, milioni di sfollati e danni economici (raccolti e abitazioni distrutti) per circa 30 miliardi di dollari. Eventi che in qualche modo sono in sintonia con un fatto incontestabile: negli ultimi dieci anni il ghiaccio dell’Hindu Kush si è ridotto del 65% rispetto al decennio precedente. Quanto al Green Pakistan Project con cui il Pakistan sta tentando di affrontare la crisi climatica (produrre il 60% dell’energia con le rinnovabili, converire all’elettrico il 30% dei veicoli…) al momento appare piuttosto velleitario, difficilmente praticabile (anche per mancanza di fondi). Un ultimo pensiero anche ai nostrani “turisti d’alta quota”, quelli che – tra un trekking, una “prima ascensione” e un giro in elicottero – in Pakistan costruiscono strade, centri turistici e villaggi-vacanza (alimentando lo stile di vita occidentale, il consumismo etc). Bé, così a spanne, ci vorrà ben altro che qualche pannello solare sul tetto del rifugio. Suggerisco: magari qualche aereo e qualche elicottero in meno?
Gianni Sartori